L’attore collabora con il Dipartimento di Giustizia per il fallimento del fondo gestito da uomini vicini al premier di Kuala Lumpur, messo in ginocchio da un buco di 3,5 miliardi. Parte di questi fondi sarebbero stati usati da una nipote del Primo ministro per finanziare il film di Martin Scorsese. Di Caprio: “Pronto a restituire eventuali fondi di provenienza illecita”.
Le volpi malesi, alla fine, sono riuscite a mettere nei guai “Il lupo di Wall Street“. Il film di Martin Scorsese sugli scandali e gli eccessi della Borsa Usa, per ironia della sorte, sarebbe stato finanziato con i soldi di una mega-truffa finanziaria che sta assumendo contorni planetari e sempre più hollywoodiani. Quelli del fondo di Kuala Lumpur 1Mdb, messo in ginocchio da un buco di 3,5 miliardi e gestito – lascia intendere il Dipartimento di Giustizia Usa – dal primo ministro malese Najib Razak, nascosto nelle carte processuali dietro lo pseudonimo “Malaysian official 1”. Parte dei fondi stornati dal veicolo finanziario, nato in teoria per promuovere lo sviluppo delle aziende asiatiche all’estero, sarebbe stata usata dalla Red Granite Pictures – società della nipote del premier – per produrre la pellicola sulle mirabolanti avventure (e le truffe) del trader Jordan Belfort negli anni d’oro di Wall Street. “Hollywood actor 1”, lo pseudonimo dietro cui si nasconde Di Caprio negli atti giudiziari, si è messo a disposizione delle autorità americane nell’inchiesta dopo il pressing di alcune charities di cui era testimonial: “Faremo il possibile per collaborare con gli investigatori” recita un comunicato dell’attore che con “The wolf of Wall Street” ha vinto un Golden Globe, dichiarandosi disponibile a restituire eventuali finanziamenti illeciti.
Il crac di 1Mdb, al di là del ruolo della star, ha assunto i toni e il copione di una thriller finanziario-politico in celluloide. Le polizie di mezzo mondo stanno inseguendo i soldi occultati in questa mega-truffa tra decine di paradisi fiscali dove sono stati dirottati per tentare di far perdere le loro tracce attraverso la Buona Stella, una cassaforte delle Sychelles. Dovunque si arrivi, però, emergono sempre più spesso le impronte digitali dell’entourage del politico malese. Sono spuntati quadri di Van Gogh e di Monet comprati e occultati dai suoi collaboratori per riciclare il denaro. C’è uno scontrino da 750mila euro di spesa in un solo giorno pagato dalla first lady di Kuala Lumpur in una gioielleria in Sardegna durante un’indimenticabile vacanza estiva. E ci sono decine di strane triangolazioni con la famiglia regnante saudita. L’indagine Usa sta cercando di individuare chi sapeva e cosa di questo meccanismo infernale. E l’indagine sembra destinata a coinvolgere alcuni dei grandi nomi di Wall Street.
La prima pedina a cadere nella bufera del crac è stata la Bsi, la banca più antica della Svizzera. Alcuni manager dell’istituto (controllato all’epoca dalle Generali) hanno aiutato 1Mdb a far sparire il tesoretto, in cambio di lauti bonus. Le autorità finanziarie elvetiche hanno evidenziato numerose lacune nella gestione della vicenda da parte del management e hanno costretto l’istituto – rilevato nel frattempo prima dalla brasiliana Btg Pactual e poi dalla Efg – allo scioglimento. Il conto, alla fine, l’hanno pagato i dipendenti che non avevano avuto alcun ruolo nello scandalo. Le indagini puntano però ora con decisione ai pesci più grossi. I procuratori di Manhattan hanno acceso un faro sul ruolo di Goldman Sachs che ha emesso un bond da 3,5 miliardi per la finanziaria malese e per Deutsche Bank. Razak è riuscito invece finora a schivare le inchieste, rimuovendo in patria i giudici che avevano alzato il tiro su di lui. Il 19 di novembre, però, l’opposizione ha organizzato una grande manifestazione per chiedere le sue dimissioni.
Ettore Livini, La Repubblica