(di Tiziano Rapanà) Silenzio, impossibile da disegnare. Non si può creare una congettura, ordire un piano di costruzione del silenzio. Metti il muto al televisore ma non è la stessa cosa. È una voce azzoppata, un rumore negato. Il silenzio dovrebbe avere una sua dignità. Facciamo un programma sul silenzio. Non il gioco del silenzio né il silenzio suonato da Nino Rosso. E nemmeno: “Fate silenzio!”. Il silenzio non si fa né a bocca chiusa né con due legnetti. Silenzio, nel senso di rinunciare a dire con la parola per muoversi con l’occhio della telecamera e l’indicazione del montaggio. Silenzio, nel senso di: “Ti ho detto tutto e non mi sono ridotto a proferire parola, a costruire un periodo, mi abbandono al fraintendimento possibile, al malinteso inevitabile”. La chiarezza dei televisivi lasciatela al chiasso delle parole che si sovrappongono o, peggio, diventano parole comprensibili da sacrificare sull’altare della divulgazione. Silenzio che anche un’evoluzione dal film muto: niente didascalie e sottofondo. Niente fondo di verità o finzione, perché non c’è nulla da dire. Silenzio: ti ho detto tutto ma non serviva dirtelo. Tv accesa, attesa spasmodica, aspetto il rivoltamento delle convinzioni sulla costruzione di un programma. Ma è tutto uguale a prima, non c’è silenzio e nemmeno lo si fa (mi accontento). “Specchio delle mie brame, chi è il più banale del catodico reame?”, nemmeno lo specchio mi ha risposto. Crede di aver fatto silenzio, si è soltanto sottratto al fastidio di dovermi rispondere.