(di Tiziano Rapanà) Al Salone del libro di Torino non mi hanno invitato e nemmeno contestato. Pazienza. Mi inviteranno, in futuro, credo e spero mi vogliano contestare. Voglio le polemiche dei patafisici, dei propensi alla creatività. Voglio essere messo alla berlina per il mio non aver abdicato alle regole e ai linguaggi dell’esistente. Non mi si dovrebbe far parlare perché la mia voce è ancora intrisa di esistenza, di tam tam quotidiano. Che mi si dedichi un reality – e ora non sono io che parlo ma il demone della protervia che ha preso possesso del mio corpo – sull’invito e la possibile contestazione. Un ritratto non mio ma dei provocatori che avranno da ridire su me e sull’inclinazione del quotidiano sentire. Temo che la Rai non vorrà questo programmino, idem Mediaset e La7, mi affido al buon cuore di un editore di una tv locale. Una puntata unica da un’ora, io che vado a Torino e prendo possesso della mia camera d’albergo e poi le voci fuori campo che descrivono le aspettative. Io che presento un libro per l’occasione e poi la polemica che si accende come un portentoso sisma ex abrupto. Conduttori che accettano di presentare un programma dallo 0,3% di share (e mi tengo basso) non ce ne saranno: farò il questuante a vuoto. Se ci fosse un editore che voglia perdere tempo e soldi, sarei l’uomo più felice del mondo. Qui si supera l’utopia riluttante, il nulla di fatto è un automatismo naturale.