Adidas il caso del costume intero indossato da un uomo

Adidas il caso del costume intero indossato da un uomo

Come ogni anno, con l’avvicinarsi di giugno, molti brand lanciano le proprie collezioni dedicate al Pride e alla comunità LGBQT+. Adidas non ha fatto eccezione e ha collaborato con il designer sudafricano Rich Mnisi per una capsule collection colorata e inclusiva. Uno dei capi lanciati però ha sollevato una feroce polemica: si tratta di un costume bagno intero indossato da un modello. La semplificazione più che grossolana “costume da donna indossato da un uomo” ha scatenato il pubblico che online chiede il boicottaggio dell’azienda con l’accusa di “cancellare le donne”.

Le foto del costume da bagno olimpionico con stampa colorata hanno fatto il giro del web suscitando l’indignazione anche di politici e star del nuoto, dalla deputata Marjorie Taylor Greene all’atleta Riley Gaines. L’accusa più frequente, accompagnata dall’hashtag #boycottAdidas, è che il costume da nuoto sia venduto nella categoria donne (e non come unisex) ma presentato su un corpo smaccatamente maschile.

La polemica però parte da presupposti sbagliati: non sappiamo chi stia indossando quel costume, se una donna trans, o una persona che non si identifica in nessun genere. Darlo per scontato alla prima occhiata rivela la nostra ignoranza sul tema dell’identità di genere. Ma poniamo anche che sia un uomo cisgender con un costume ‘da donna’. Quindi? Questo impedirà alle donne di comprarlo e indossarlo? Gli scaffali dedicati alle nuotatrici saranno improvvisamente vuoti? Alle donne verrà impedito di entrare da Adidas e provare un costume o una tuta? Ma soprattutto: ha ancora senso questa categorizzazione di genere? Se una donna vuole comprare un paio di pantaloncini del reparto uomo o viceversa, dov’è il problema?

La campagna della linea Pride disegnata da Rich Mnisi include anche modelle trans (come l’attivista Jari Jones) e corpi non conformi, ma è evidente che il dibattito sia stato polarizzato da un’unica foto. Si potrebbe anche aprire una parentesi su come operazioni di questo tipo, se non accompagnate da un impegno costante a favore della diversità, rischino di cadere nel rainbow washing. Ma non divaghiamo. La polemica social ricorda molto il caso di una pubblicità Valentino contro gli stereotipi di genere, in cui un modello queer posa nudo con una borsa. Le reazioni disgustate e le critiche ai brand ci dicono qualcosa in più su di noi e sulla nostra paura di tutto ciò che esce dalle categorie in cui abbiamo imparato a dividere il mondo: maschi o femmine, bello o brutto, buono o cattivo. E a chi si chiede se “c’era davvero bisogno” è facile rispondere: a giudicare dai commenti sì, c’è davvero bisogno.

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