SALEMME: «LA MIA COMMEDIA, UNA FESTA ESAGERATA»

SALEMME: «LA MIA COMMEDIA, UNA FESTA ESAGERATA»

Dal 14 febbraio al 19 marzo 32 repliche con 30mila spettatori. Nella prosa sono numeri significativi. Ogni giorno posti esauriti e sedie aggiunte. E il Diana ha una capienza di 920 spettatori: «Un esito ormai raro in questi nostri tempi, che mi ha riportato al passato, ai trionfi di E fuori nevica, L’amico del cuore o Pasticceria Bellavista. Perciò, d’accordo con la famiglia Mirra, proprietaria della sala, ho deciso di tornare nella prossima stagione, credo in primavera, con la stessa commedia, e per altre quattro settimane». Vincenzo Salemme commenta i risultati di botteghino conquistati da «Una festa esagerata», l’ultima sua drammaturgia, che lo vede come sempre in veste di autore, regista e protagonista.
Salemme, come spiega questo successo?
«Anche al Sistina di Roma abbiamo dovuto mandare indietro tanta gente. Penso che svariati fattori abbiano portato a questo risultato: la maturazione che mi dona l’età, un pubblico affezionato, una commedia riuscita bene, ricca di comicità e battute più di situazione che del momento; una storia che parla della felicità; più esattamente, dell’odio che spesso si ha per chi è felice; infine, personaggi indovinati e, non ultima, la presenza, al mio fianco, di attori eccellenti».
La gente odia chi è felice?
«Perché, non è così? Nella mia commedia la morte improvvisa di un vicino di casa rovina la festa organizzata da Gennaro – anzi, soprattutto da sua moglie – per i 18 anni della figlia. Che fare? Rinviare l’evento o fregarsene di un lutto così prossimo? Poi si scopre che la dipartita del pover’uomo è stata organizzata addirittura dalla figlia, Lucia, e con il preciso intento di mandare a monte la festa e vendicarsi di Gennaro, insensibile alle sue presunte grazie. Una volta, in ascensore, lei si era sentita male. Lui, per rianimarla, le aveva praticato la respirazione bocca a bocca e la ragazza aveva equivocato. Basta poco per trasformare l’insoddisfazione in odio e in violenza. Questo per dire che molte persone mal sopportano la felicità altrui: mal comune mezzo gaudio, no?».
Tutti i suoi titoli celano una filosofia di vita, che si fa più evidente con il crescere della sua maturità. Proviamo a sintetizzarla?
«Tento sempre di unire la riflessione al divertimento e alla leggerezza. Vorrei che il pubblico riflettesse sul buon senso, il grande assente della nostra epoca. Ce lo hanno fatto perdere la sovrappopolazione, linquinamento, le disuguaglianze. E l’infelicità. Solo chi non ne ha, può infuriarsi per difendere una idea o convincersi che può dominare il mondo intero, come credeva Hitler. Il buon senso, invece, non può che mostrarci l’essere umano come una creatura fragile, che ha bisogno da un lato di amore e, dall’altro, di sana e onesta autorevolezza. Il buon senso dovrebbe indurci a vivere con umiltà il passaggio in questa vita, sapendo che siamo piccole particelle di una grande energia universale, e che intorno a noi c’è tanto altro, altre creature come noi e una natura da rispettare, dei sogni da inseguire e una realtà con cui fare i conti, trovando il giusto equilibrio tra libertà e rispetto».
Progetti? Cinema? Teatro?
«Probabilmente, in autunno girerò il mio nuovo film, ma non posso ancora parlarne. Prima, sarò sul set di un film tratto da un libro di Walter Siti, Il contagio, ambientato a Roma, una intensa storia di corruzione. Potremmo definirla l’altra faccia della Grande bellezza. Poi mi aspetta una commedia molto carina, che sarà diretta da Carlo Vanzina».
Nel prossimo mese si celebrerà Totò a 50 anni dalla morte. Qual è stata la sua lezione? E c’è qualcosa che lei ha preso dalla sua arte?
«Dopo averlo visto e rivisto tante volte, qualcosa è rimasto in me, che poi ho usato nel mio lavoro; innanzitutto – credo – la sua cattiveria, che è quella nobile, pulita e spietata dei bambini; poi, la libertà con cui recitava. Totò non aveva regole, lacci e lacciuoli, se non la devozione per la propria fantasia. Quanto alla comicità, be’, se escludiamo l’ironia, tipicamente napoletana, penso che la sua sia di stile più anglosassone, poco realistica e molto surreale. Ecco, qui, forse, ho rubacchiato da lui. Ma la sua lezione più grande è sta un’altra: la capacità di non prendersi sul serio. Per tornare al buon senso, il Principe ci avverte che, alla fine, sono tutte bazzecole e pinzillacchere».

Il Mattino

Torna in alto