«Jackie» del regista cileno Pablo Larraín, Natalie Portman è magistrale nel restituire la glaciale determinazione della First Lady
Non solo nel West, ma anche alla Casa Bianca «se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». Con una differenza: che se nel film di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance la «leggenda» che ha spianato la carriera politica del senatore Stoddart ha una bella base di realtà — lui il cattivo l’aveva davvero sfidato a duello — nel film Jackie di Pablo Larraín quel mito lo vediamo costruire ex novo, quasi sul nulla, con una determinazione e una lucidità che affascina e insieme mette un po’ paura. Ma anche con una capacità di scavare nei rapporti tra lotta politica, mezzi di comunicazione e ambizione che fanno dell’ultimo film del regista cileno un appuntamento da non mancare.
Specie di nuovo case-history dietro storie di successo (dopo No – I giorni dell’arcobaleno sulla vittoria contro Pinochet nel 1988 e dopo Neruda), Jackie «ricostruisce» quello che è successo nella testa di Jacqueline Lee Bouvier nei giorni immediatamente successivi all’assassinio di Dallas, il 22 novembre 1963. E lo fa attraverso un’intervista — che non saprei dire se mai fu davvero concessa. Anche se propenderei per il no — che l’ex First Lady americana (Natalie Portman, grandissima) concede nella sua casa di Hyannis Port, nel Massachusetts, a un giornalista di Life, Theodore H. White (Billy Crudup). Qualche avversario ha già cominciato a mettere in discussione il bilancio politico di Kennedy e lei vuole rivendicarne grandezza e importanza. E per farlo, la sceneggiatura di Noah Oppenheim usa proprio l’intervista, grazie alla quale il film può ricostruire il periodo intercorso tra l’assassinio di Dallas e i solenni funerali a Washington, quando Jacqueline ottenne di seguire il feretro che attraversava la città a piedi, tenendo per mano i figli e senza preoccuparsi delle misure di sicurezza. Sull’esempio del funerale di Abramo Lincoln.
A Larraín non interessa l’ennesima ricerca di mandanti e responsabili dell’attentato ma piuttosto il percorso con cui si possono piegare i mezzi di comunicazione di massa al proprio progetto politico. Come la leggenda diventa realtà, avrebbero detto nel vecchio West. Solo che qui siamo nel pieno della Guerra Fredda e la propaganda deve passare per altre vie. Come per esempio la televisione, che il film ricorda essere entrata per la prima volta alla Casa Bianca proprio grazie a Jackie (una trasmissione della Cbs dove Larraín mescola spezzoni originali ad altri ricostruiti per l’occasione. Perfettamente, bisogna aggiungere). O come l’immaginario collettivo, cui la vedova, dopo la morte del marito, offre se stessa con l’abito della tragedia che non vuole togliersi, sporco di sangue del presidente ucciso (e che da allora è conservato negli Archivi nazionali statunitensi). O ancora la suggestionabilità popolare, cui Jackie regala la favola di Camelot e della sua corte regale. Lei parla del musical di Lerner e Loewe, quello preferito da John Fitzgerald Kennedy, ma sa benissimo che citandolo il passaggio dell’uno dentro il mito dell’altro è praticamente immediato. E che la corona del «Re in eterno» (così si chiamava il romanzo di Terence Hanbury White da cui era tratto il musical) si sarebbe posata anche sulla testa del presidente ucciso.
Girato per buona parte a Parigi, negli studi di Luc Besson dove Jean Rebasse ha ricostruito tutti gli interni, Casa Bianca compresa, e sostenuto da una prova straordinaria di Natalie Portman, mimeticamente magistrale ma soprattutto ammirabile nel rendere la glaciale determinazione e la sofferta bellezza della protagonista nel momento più duro della sua vita (nessuno più di lei meriterebbe l’Oscar), il film di Larraín diventa così il ritratto di una donna che la politica vorrebbe tenere da parte (illuminanti le scene dove entrano in gioco Robert Kennedy, interpretato da Peter Sarsgaard, Lyndon Johnson e sua moglie Bird, rispettivamente John Carroll Lynch e Beth Grant, e la sua governante Nancy, cioè Greta Gerwig) ma soprattutto ci offre il quadro di come il potere e i mezzi di comunicazione siano ormai intrinsecamente legati, di come una cosa passi attraverso l’altra. E di come l’arte (e il cinema) possano essere strettissimamente uniti nel creare ma anche nell’analizzare quel connubio.
Il Corriere della Sera