A loro Nastri d’argento speciali. Ritorno con Il signor diavolo
Una ‘santa alleanza’ in piedi da cinque decenni tra grande e piccolo schermo “che ha come segreto, fidarsi ciecamente uno dell’altro, non invadere i campi reciproci quando non è il caso, ma farlo violentemente quando c’è bisogno e di conseguenza di litigare tutti i giorni”. Così Antonio Avati, produttore, soggettista e sceneggiatore, spiega i punti di forza del sodalizio artistico che lo lega al fratello, regista e sceneggiatore, Pupi. Un legame celebrato ieri dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici con la consegna di due Nastri d’argento speciali per 50 anni di cinema. Un percorso che li riporterà a fine primavera in sala con un ritorno al genere più frequentato agli esordi, l’horror, ne Il signor diavolo, distribuito da 01.La serata evento organizzata con CSC-Cineteca Nazionale e Luce Cinecittà e la partecipazione di Anica, ha regalato alla platea piena della Casa del Cinema tanti esilaranti aneddoti raccontati dal regista (che ha compiuto il 3 novembre 80 anni), come quello sul suo primo giorno sul set da regista dell’opera prima, Balsamus, l’uomo di Satana (1968). “Ero rimasto sveglio tutta la notte a preparare il mio discorso in inglese di ringraziamento per l’Oscar e alla prima scena invece di dire ‘motore’ ho urlato ‘ciak!’, mostrando tutta la mia inesperienza alla troupe di grandi professionisti che avevamo fatto arrivare da Roma – ha ricordato Pupi Avati -. Ho sentito le gambe cedere ma mi hanno preso al volo l’operatore di macchina e il direttore della fotografia Franco Delli Colli che mi hanno detto “Nun te preoccupà, il film te lo famo noi”.Dolce anche il ricordo del primo incontro con Mariangela Melato: “Per il mio secondo film, Thomas e gli indemoniati (1970), avevo scelto nei provini a Milano, una ragazza che ricordava Grace Kelly. Il giorno delle riprese, ne vedo arrivare un’altra, dai capelli scuri, più piccolina, che sembrava più Irene Papas. Mi disse che l’amica non era potuta venire e che lei era pronta a sostituirla. Io mi arrabbiai e la cacciai ma lei restò fuori al freddo, tutto il giorno. Una cosa che mi convinse a prenderla, anche se pensavo mi avrebbe rovinato il film. Il giorno dopo, però, al primo ciak, appena aprì bocca, mi resi conto di come fosse in grado di rendere bellissimo quello che avevo scritto. Non recitava, tutto diventava verità con lei. Alla fine della scene ci fu un applauso per Mariangela di tutta la troupe”. La decisione di lavorare insieme, per i fratelli Avati, spiega Antonio, “50 anni fa è stata un po’ anomala e imprevedibile. Io non pensavo minimamente di diventare soggettista, sceneggiatore e produttore ma ero talmente narcisista e vanitoso dal voler fare l’attore. Ma la mia carriera davanti alla macchina da presa ha iniziato presto a naufragare, perché gli incontri con gli aiuto registi e gli addetti ai casting di quegli anni, erano traumatici per un ragazzo perbene, borghese, timido, educato come ero io all’epoca. Mio fratello mi vedeva tornare dai casting sempre più depresso e allora mi suggerì di formare questa ‘santa alleanza’ che va avanti tuttora”.Esplorare i generi, “è stata una regola per noi. Volevamo dimostrare che non esiste in Italia solo un modo di fare cinema, quello che viene definito autoriale, anche se mio fratello può dichiararsi in maniera assoluta e non contestabile un autore”. Un viaggio dal dramma, alla commedia agrodolce, dall’horror al racconto epico, che li ha portati a lanciare decine di talenti e a lavorare con molti protagonisti del cinema italiano, e non solo, da Ugo Tognazzi a Sharon Stone, come ha ricordato ieri un filmato con oltre 240 volti di interpreti nei loro film e fiction. Ora è la volta de Il signor diavolo, con Gianni Cavina, Alessandro Haber e Chiara Caselli: “un film ambientato negli anni ’50 – spiega Antonio Avati – molto molto gotico, horror, avatiano, di quell’Avati che spesso viene evocato da una certa critica e un certo pubblico dopo i successi cult di La casa dalle finestre che ridono, Zeder o L’arcano incantatore”.
Francesco Pierleoni, Ansa