“Quando partiva la sigla, la gente restava senza fiato, talmente era forte l’energia che sprigionava. Se la reazione era così potente a casa, ti lascio immaginare cosa potesse accadere in studio”. Della prima puntata di Furore, in onda su Raidue il 16 maggio ’97, l’arbitro Alessandro Greco ricorda ogni dettaglio. “La Carrà e Japino mi dissero tutto quello che dovevo fare. Sembravo un robot. Poi, per fortuna, le cose andarono diversamente”. Lo show parte forte, quasi il 22% di share, “numeri bulgari, oggi credo irreplicabili” sorride Greco. Dopo 20 anni, possiamo parlare tranquillamente di cult generazionale. Del primo (ma anche ultimo) esperimento di tv “neuro-romantica, eccitante, gioiosa, energetica e anti-depressiva”, per dirla con l’allora direttore di rete Carlo Freccero. Di quel modo di divertirsi, di quell’intrattenimento basato su meccanismi semplici ma coraggiosi, non è rimasta traccia, se non un vuoto fatto di timori, rassegnazione e noia. Così, nell’attesa di qualcosa che non sia l’ennesimo karaoke ispirato alla storica trasmissione, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Alessandro Greco. Origini pugliesi, classe ’72, la sua militanza dalle parti di Viale Mazzini inizia già a 23 anni. “Tra il ’95 e il ’96 qualcuno iniziò a testarmi a Unomattina Estate. Si trattava di collegamenti esterni, di piccoli spazi”, chiosa il conduttore.
Nel frattempo?
“Nel frattempo alcuni addetti ai lavori iniziavano ad accorgersi di questo ragazzo sempre più scalpitante, con alle spalle anni di tv private e spettacoli nelle piazze. Capitava che fossero loro a segnalare a me le cose, come nel caso di Furore. Mi fu segnalata l’intenzione di importare questo format francese e mi fiondai ai provini. Il programma fu affidato a quelli che sono diventati giocoforza i miei genitori televisivi, Raffaella Carrà e Sergio Japino”.
Il tutto con la benedizione di Carlo Freccero.
“Un maestro insuperato, capace di osare con situazioni e personaggi che altri difficilmente si sarebbero sognati di proporre. Il suo ragionamento fu: abbiamo tra le mani uno show innovativo, puntiamo su un volto nuovo”.
La storia che ti avevano programmato come un robot è troppo forte.
“Faccio la scalinata e il mitico passetto di Furore assieme al corpo di ballo e vado a sedermi. A quel punto, la giostra si ferma. Silenzio assoluto. Tutti vogliono capire la natura del gioco, conoscere il conduttore. Guardo la lucetta rossa, quasi non riesco a parlare, la salivazione è azzerata. Sento che il cuore e l’anima, in qualche modo, devono venir fuori per forza, a prescindere da ogni scaletta. All’inizio sembra un’impresa impossibile. Con i minuti, la situazione cambia. Tiro fuori tutta l’energia che ho dentro. Un’energia positiva, che buca il video e mi permette di arrivare al pubblico nel modo più forte e diretto possibile”.
Hai detto: “In 5 anni ho avuto contro di tutto: partite, trasmissioni storiche. Mai un calo”.
“Alla fine abbiamo vinto tutti. Se Freccero, Japino e la Carrà, ai tempi, si non si fossero assunti il rischio di scommettere su di me, oggi non staremmo qui a parlarne”.
Come e quando ti accorgesti di essere diventato popolare?
“Me ne accorsi già dopo le prime puntate. Talmente era la ressa che si creava dopo la trasmissione, che dovevano portami via. Iniziarono a verificarsi problemi di ordine pubblico. Il rischio di farmi male era concreto, non potevo più muovermi liberamente. Da parte del pubblico ho avuto esternazioni che di solito vengono riservate alle rockstar”.
I vip arrivavano ingessati, ma dopo pochi minuti erano sui tavoli a ballare.
“In nessun altro programma l’ospite si è lasciato andare fin a quel punto. Davamo una visione umana dei vip, che arrivavano a disinteressarsi della telecamera. Quando non li invitavamo, ci restavano male”.
Massimo Ceccherini superò se stesso.
“Alla terza parolaccia, tra il serio e il faceto, gli feci capire che se ne avesse pronunciata anche solo un’altra lo averei invitato ad accomodarsi fuori”.
Vittorio Sgarbi lo invitavate spesso.
“O si estraniava dal gioco, leggendo e parlando al telefono, o se ne andava a zonzo per lo studio cercando di rimorchiare qualche donna del pubblico. Un approccio unico. Il battibecco tra me e lui era divertente. Mi diceva: Il vero problema è che non abbiamo mai veramente litigato, mi sei sempre stato troppo simpatico”.
Renato Zero lasciò il segno.
“In una delle puntate speciali, dedicò I migliori anni della nostra vita a Romina Power”.
Quella per la scomparsa della figlia Ylenia era una ferita aperta.
“Renato si avvicinò alla Power e cantò parte della canzone vicino a lei. Si percepirono il dolore e la commozione di questa donna, di questa mamma, ma soprattutto un grande senso di dignità, di compostezza”.
Oggi rifaresti tutto di sana pianta?
“Certo. Di Furore terrei l’ossatura, il resto lo farei nuovo di zecca. Questa domanda, comunque, mi fa tornare in mente il film La storia infinita. Da anni mi chiedono: Alessandro, quando rifai Furore?. Da solo non posso fare nulla: una trasmissione necessita di un lavoro di squadra. Si parla di questo ritorno da non so quanto. Ma nel momento in cui sia il programma che il conduttore ci sono, tutto, come per magia, si blocca”.
Tra Rai e Mediaset, arrivano addirittura due programmi il cui schema ricorda quello di Furore.
“Furore resterà sempre qualcosa di diverso. Continuare a rimandare o avventurarsi in trasmissioni che si rivelano puntualmente azzardate non credo sia conveniente per nessuno. Perché non mettere la gente nella condizione di avere l’originale con il conduttore originale? Dieci giorni di spot a tappetto richiamerebbero una fetta di pubblico considerevole”.
Come immagineresti la puntata pilota di un Super Furore?
“Quando negli anni ’90 dicevo: Giocate con noi, amici a casa, divertiamoci insieme, la risposta potevo solo immaginarla. Con i social, potremmo leggerla, commentarla”.
Nel ’97 ti affidarono anche il preserale di Raiuno, ma non durò molto.
“Colorado era un programma nuovo, cucito su misura per il sottoscritto, reduce dal successo della prima edizione di Furore. Serviva del tempo per farlo apprezzare al pubblico ma per quelli che erano gli ascolti dell’epoca l’esperienza fu ritenuta negativa. Oggi basta paragonare i dati Auditel di Colorado a quelli di qualsiasi quiz in palinsesto per capire che gli ascolti furono buoni. Intanto Freccero fremeva per avermi ancora a Furore e mi chiamò subito proponendomi di condurlo anche l’anno successivo. Dopo 6 mesi, decisi di porre fine all’esperienza col preserale”.
Col senno di poi, fu un errore?
“Sì, avrei dovuto tirare dritto, non dare retta a quello che mi si lasciò far credere e proseguire sia con Furore che col preserale”.
Ultima edizione di Furore nel 2001, all’improvviso cambia qualcosa.
“Freccero se ne andò dalla Rai, Carrà e Japino seguirono altri progetti. Persi ogni punto di riferimento. Mi ritrovai isolato. Durante i 5 anni di Furore, non pensai di tirare su una squadra con cui seminare qualcosa per il futuro. Nel 2003 e nel 2007, sotto altre direzioni, provarono a cambiare il timoniere di Furore”.
Ma si fecero del male da soli.
“Puoi farlo con l’Eredità, dove il pubblico metabolizza figure nuove. Con programmi come Furore, evidentemente, no: il rapporto con la gente era troppo forte”.
A quel punto la tua carriera subisce una battuta d’arresto.
“Mi aspettavo una risposta per quello che avevo portato in termini di ascolti e introiti. Vista la giovane età, si diceva: Greco è l’investimento della Rai per il futuro, il giocatore da crescere in casa”.
Si parlava addirittura di un dopo-Baudo.
“Invece i nuovi dirigenti decisero di non tenermi in considerazione. È stato permesso ad altri di prendersi degli spazi che fino a quel momento avevo conquistato. Questo ha fatto sì che maturassi una riflessione sull’esperienza di Furore”.
Quale?
“Quello che è successo a me nel ’97, oggi sarebbe inattuabile. Un 25enne, sconosciuto al grande pubblico, in prima serata su una rete Rai, verrebbe visto come un evento epocale: peccato che dovrebbe essere la regola, una procedura quasi automatica”.
Vent’anni fa il peso della politica era meno determinante?
“Credo che in Rai non si possa prescindere da quel tipo di influenza, bisogna farci i conti da sempre. Ma occorre una precisazione. Una raccomandazione priva di qualsiasi fondamento attitudinale e umano può essere dannosa. Mentre una segnalazione è un’opportunità che viene offerta a chi queste attitudini le possiede. Ai tempi di Furore, coesistevano entrambi gli aspetti. Oggi le raccomandazioni sono aumentate, ad essere diminuite sono invece le segnalazioni. In Rai la situazione è stantia. Il pubblico fa fatica a trovare dei contenuti umani interessanti. Gli spazi sono pochi e vengono dati sempre agli stessi, con risultati altalenanti”.
Lamenti una mancanza di continuità nel tuo percorso lavorativo in Rai?
“Fino ad oggi, per quanto mi riguarda, non l’ho vista. Eppure, risultati alla mano, qualsiasi programma da me condotto o al quale ho partecipato ha ottenuto risultati importanti. Penso al Gran Concerto, a Castrocaro, a Tale e Quale, a Effetto Estate, a Una Voce per Padre Pio. In un’azienda che dovrebbe premiare il merito coniugato a dei risultati positivi dovrei esserci d’ufficio”.
A fronte di una miopia ormai conclamata, c’è da aspettarsi ancora qualcosa?
“Nel momento in cui i segnali sono vincenti, perché non dare continuità a quello che faccio con qualcosa che non sia il solito programma copia-incolla?”.
Conti ti vorrebbe al timone dell’Eredità.
“Carlo è un amico fraterno. A me, però, non ha detto nulla”.
I canali importanti oggi sono almeno nove, basta guardarsi intorno.
“Quando nasci in un posto, non puoi sfuggire alla voglia di volerci tornare. Resto figlio della Rai, ma non esiste nessuna preclusione. E non escludo di poter tentare strade diverse qualora la situazione non dovesse cambiare. Nei confronti di quest’azienda ho la coscienza a posto. Dalla mia ho i risultati, il pubblico che mi segue da anni su Rtl 102.5 e si accorge di ogni mia partecipazione, di ogni mia ospitata, di ogni mio programma. Soprattutto, quella forza per poter continuare a camminare ancora per molto”.
di Leonardo Filomeno, Libero