Zhang Changxiao, in arte Sean White: “Grazie a De André porto la musica italiana in Cina”

Zhang Changxiao, in arte Sean White: “Grazie a De André porto la musica italiana in Cina”

Con una certa modestia, Zhang Changxiao si definisce “un nuovo Marco Polo”.

Non ha del tutto torto, ma dobbiamo capovolgere il punto di vista: non un italiano che spiega la Cina gli italiani, ma un cinese che spiega l’Italia ai cinesi. Però l’Italia dei cantautori: De Andrè su tutti, ma anche De Gregori, Battiato, Tenco, Gaber, Guccini, Fossati. Per farlo ha scritto un libro dal titolo lisergico: Creuza de Mao. Che, col regime politico che c’è a Pechino, poteva causargli qualche grana per vilipendio del fondatore.

Invece è diventato un best seller da oltre 150mila copie, non poche neppure in un Paese da oltre un miliardo di abitanti: “Presento 18 cantautori italiani con saggi, interviste e traduzioni di testi. A breve, in autunno, verrà tradotto anche in italiano. L’editore è ancora da decidere, ma ci sono un paio di proposte”, dice il 31enne Zhang, che per semplificarsi le cose in Italia ha adottato il nome d’arte di Sean White e che rappresenta un caso perfetto di come la propria passione possa diventare un lavoro e una fonte di reddito (la ricetta della felicità, in sostanza).

E la sua passione sono appunto i cantautori. Non quelli cinesi, anche perché da lui non esistono, “non come in Italia: i nostri sono molto meno diretti in quello che scrivono. Gli italiani invece sono capaci di passare da riflessioni personali a descrizioni di sesso, qualcosa che da noi sarebbe impensabile. E poi sono poeti, parolieri e cantanti, capaci di combinare tradizioni artistico-letterarie profonde e l’essenza musicale italiana con il rock e l’elettronica. Sono figure uniche, davvero”.

A cominciare da quello con cui è cominciato tutto, Fabrizio De Andrè. Ci racconta come è nata la cosa?
“In un modo che sembra inventato. Nel 2012 ero studente di Ingegneria robotica a Lecco, camminavo sul lungolago e sentii la voce di Faber che veniva da un negozio di dischi e cantava “Nella mia ora di libertà”. L’italiano non lo parlavo ancora, ma bastò la musica a trasmettermi subito un senso di verità, era come se Dio mi stesse salutando con quella voce alla Dylan, alla Cohen, ma senza essere né l’uno né l’altro. Decisi che dovevo sapere tutto di lui. Quando ho iniziato a capirne i testi sono andato fuori di testa davvero. Dicevo di Dylan, ma per me lui è pure meglio. E da lui sono partito per conoscere tutti i cantautori italiani. In molti casi conoscerli anche personalmente”.

Come si vede anche in un fresco video dove ne mette assieme tanti.
“Grazie a Stefania Stafutti, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Pechino, sono riuscito a intervistare alcuni musicisti italiani. La cosa più difficile è stata sempre superare lo scetticismo del cantante, che si vede arrivare lì un cinese con la faccia da ragazzino e non lo prende sul serio. Ma sono riuscito a conquistarli, ed è stato un crescendo. Anzi, ho iniziato ad accompagnarli in Cina, a organizzargli concerti. Il primo è stato Eugenio Finardi nel 2013, l’ultimo Giovanni Allevi il mese scorso, presto toccherà a Zucchero ed Elio. In totale ho superato le 200 date. Il sogno resta Vasco Rossi, chissà”.

Ma i suoi connazionali cosa dicono?
“All’inizio sono rimasti stupiti. Per loro la musica italiana è Bocelli, è l’opera. Certo la lingua è una barriera fortissima, e poi voi italiani non sapete farvi promozione, non fate sistema come ad esempio fanno gli americani. Però qualcosa sta cambiando, spero anche grazie al mio impegno: l’orecchio dei miei connazionali, che prima si accontentava della musica in lingua cinese, inglese, coreana e giapponese, ora inizia ad arrivare anche a lingue minori come l’italiano”.

Ha fatto anche il percorso contrario? Dalla Cina all’Italia?
“Sì, nel 2013 ho portato al Premio Tenco Cui Jian, praticamente il Vasco Rossi cinese, ma con testi abbastanza assimilabili a quelli dei cantautori. Non è stato facile neanche lì. “Sei troppo giovane”, mi dicevano. Appena hanno letto le traduzioni in italiano delle sue canzoni li ho convinti. Ora mi dedico solo alla musica e al dialogo tra le due culture. Sono il direttore del festival del Capodanno cinese d’Italia e ho fondato l’associazione artistica Mandorla per fare collaborare la nostra comunità milanese con gli italiani. Nel 2016 mi hanno dato il premio Falcone-Borsellino per il dialogo tra popoli, e per lo stesso motivo ho appena preso il Lunezia. Ma la passione resta sempre la musica”.

E gli studi?
“Mollati. Mio padre la prese malissimo, tagliandomi i soldi che mi mandava per l’università dicendo che d’ora in poi mi sarei dovuto arrangiare. Anzi, smise proprio di parlarmi. Sono stato una grande delusione. Lui, un uomo d’affari di Jinan, la città di Confucio, che si ritrova un figlio che vuole vivere di arte. Quando poi ha visto i soldi che guadagno adesso con le mie attività, mi ha rivalutato”.

Augurandole di portare il Blasco in Cina, che altre idee ha per il futuro?
Vorrei dedicarmi a un’altra mia passione, il cinema. Vorrei scrivere un libro sui registi italiani. Mi piacciono molto Pasolini e Benigni, sarebbe bello far conoscere i loro film anche da noi”.

Repubblica.it

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