Dario Argento, lei ha lavorato con Romero ed è stato suo amico. Chi sono gli zombie che il regista americano ha “inventato”?
«I mostri che ha creato in fondo siamo tutti noi, schiacciati dalle nostre ipocrisie. Le sue pellicole, realizzate con budget irrisori, hanno rivoluzionato il mondo del cinema horror, affondando le radici in una feroce critica sociale e costringendo lo spettatore a confrontarsi con i grandi mali che affliggono la contemporaneità: il consumismo esasperato, il razzismo, l’indifferenza individualista».
È stato il primo a realizzare un horror “politico”?
«Il suo più grande merito è stato di aver svecchiato il cinema horror, fino a quel momento ancorato a vecchi mostri come Frankenstein o la Mummia. Creature che le persone percepivano come “distanti”. Ha introdotto temi sociali forti attaccando in modo più o meno velato quello che ci circonda. Nonostante i suoi film raccontassero una dimensione fantascientifica, le sue orde di zombie venivano inserite nei luoghi iconici della società americana, come supermercati o centri commerciali, simbolo della corsa al consumo. Pellicole diventate dei cult, per molti critici e fans addirittura “premonitrici” del mondo attuale. Ha portato i suoi mostri nella vita di tutti giorni, nel nostro quotidiano».
Che cosa lascia Romero al cinema di oggi?
«L’andatura dello zombie, l’espressione, il fatto che bisognasse sparargli in testa per ucciderlo, tutti elementi che hanno fatto scuola. Alcuni suoi film sono stati dei flop, ma Romero non si è mai arreso. Il suo obiettivo era dimostrare quanto le idee potessero sopperire alla mancanza di effetti speciali o di una smodata spettacolarizzazione».In quale occasione vi siete conosciuti? «Negli anni ’70 in un ristorante di New York, era appena uscito “Wampyr”, un film che stava andando male. La storia fra noi due non era tenebrosa, come quelle di cui parlavamo per notti intere, ma d’amore. Ci chiamavano i “due fratellini”. Avevamo creato un sodalizio a partire dalla collaborazione per il montaggio di “Zombi” del 1978, sèguito del film seminale “La notte dei morti viventi” del 1968. Abbiamo lavorato fianco a fianco anche nel 1990 per “Due occhi diabolici”. Fino all’ultimo cercò di mostrare a tutti il suo modo di fare cinema, partendo dal basso e puntando sull’intelligenza della paura».
Perché “La notte dei morti viventi” è diventato un cult?
«Si tratta di un capolavoro, non solo per il significato politico della pellicola, ma per come la mise in piedi. Realizzò il progetto con un budget bassissimo, coinvolgendo, fra attori e tecnici, un esercito di dilettanti. Lo stesso approccio per pietre miliari come “Non aprite quella porta” di Hooper, “La casa” di Raimi e “Halloween” di Carpenter in cui i registi trasformarono amici e colleghi di lavoro in attori. Fu grandioso, basti pensare che il film fu finanziato dai commercianti della sua città natale. Un modo di lavorare che, in parte, non ha mai abbandonato mantenendo le produzioni nella sua Pittsburgh».
Qual era la più grande paura di Romero?
«Non la paura, ma il dolore lo tormentava. Il film “La notte dei morti viventi” fu un successo, ma chi doveva occuparsi di depositare i diritti non lo fece e così, nonostante sia stato lui l’inventore degli zombie, oggi chiunque può realizzare un film sui “non morti” senza citarlo. Questo lo faceva soffrire molto, una mancanza di riconoscimento che non gli dava pace».
Cosa pensava del cinema horror contemporaneo?
«L’horror di oggi non gli piaceva, lo considerava di plastica e troppo schiavo degli effetti speciali. Lui inseguiva le idee che scuotono la parte più profonda delle persone, ha avuto successo con i “non morti”, ma amava l’anima».
Il Secolo XIX