L’industria del cinema e della televisione rischia di trovarsi in ginocchio come tra il 2007 e il 2008, quando rimase ferma per 100 giorni provocando notevoli perdite economiche
L’ultima volta che accadde fu tra il 2007 e il 2008 e l’industria del cinema e della televisione rimase paralizzata per oltre tre mesi registrando la perdita di circa un miliardo di dollari.
La trattativa che vede ai lati opposti del tavolo il sindacato degli sceneggiatori e le grandi case di produzione è ormai arrivata a un muro contro muro. Il punto morto della negoziazione è stato sancito da un referendum in cui il 97.85% degli scrittori si è dichiarato favorevole a incrociare le braccia (e le penne).
Oggi come allora, lo sciopero ha come scopo incrementare i benefici degli sceneggiatori in maniera proporzionale rispetto al grande successo delle serie prodotte e che fruttano notevoli introiti a produzioni e piattaforme streaming. Per gli addetti ai lavori i proventi non vengono infatti redistribuiti equamente tra chi ha contribuito in modo fondamentale al loro successo.
Al sondaggio on-line hanno votato 9.218 iscritti, il 78%del totale, e 9020 hanno detto sì. La pressoché totalità degli sceneggiatori è dunque pronta a spegnere i computer nel caso in cui gli Studios non accettino gli adeguamenti salariali e dei diritti d’autore richiesti.
“Un nuovo record sia per l’affluenza alle urne che per la percentuale di consenso”, scrive sul suo sito la WGA, ricordando che questa “innegabile dimostrazione di unità e determinazione” dà forza al comitato sindacale che contratta con gli Studios.
Per i fan delle serie più famose e che creano dipendenza ci sono ancora due settimane di tempo e di speranza prima che scada il contratto triennale della categoria. Se non si raggiunge l’accordo entro il 1 maggio scatterà lo sciopero a oltranza.
Quindici anni fa la stessa protesta, secondo una stima della National Public Radio presentata il 12 febbraio del 2008, costò all’economia dell’industria dell’intrattenimento circa 1.5 miliardi di dollari, mentre uno studio della UCLA Anderson School of Management stimò la perdita in 380 milioni di dollari.