Sgarbi non era il caso

Sgarbi non era il caso

(di Tiziano Rapanà) Ho una grande simpatia per Vittorio Sgarbi. Quand’ero piccolo mi feci autografare il suo libro Onorevoli fantasmi, la sua dedica fu più che generosa: “A Tiziano ché capisce tutto”. Nonostante sia uno sfacciato simpatizzante del critico d’arte, debbo dire che non mi è piaciuta la ormai celeberrima affermazione rilasciata nella puntata odierna di Domenica In. Ossia: “C’è la mia assistente, è del 1996, che per farmi capire come sono i tempi di oggi mi dice sempre: ‘Quelle del 2000, tutte…'” E qui sorvolo, ma mi pare sia intuibile il finale. No, non mi accodo al coro social del moralizzatori. Trovo ributtante questa volontà di salire sulla carrozza del presunto buongusto. Sono in tanti e il cocchiere non ce la fa: anche lui prova disagio a dar passaggio ai figuri, che rincorrono un pensiero già digerito per poter tentare di recuperare un briciolo di popolarità. Cercano il successo, a modo loro e con i loro mezzi. Per loro, il successo è l’unico obiettivo raggiungibile. Ma io voglio il declino come idea di mondo possibile. Il successo lo lascio alla naturale inclinazione del participio passato. Il declino senza picco, senza trionfo, è l’unica idea veramente interessante di questi tempi. Montagna? No, pianura! Il cassetto delle ambizioni, ora, può rimanere chiuso definitivamente a chiave. Mentre loro riempiono armadi su armadi e non capiranno mai che le loro corse da fermi non li porteranno a nulla, perché non sono sarti della loro alterità: non stanno lì a capire quale possa essere la stoffa adatta e l’abbinamento dei colori, si accontentano. E quindi figuriamoci se mi metto a sfilare con lo stendardo della banalità. Le processioni laiche delle frasi fatte non mi interessano. Mi limito a dire che non mi è piaciuta quella frase, quella leggerezza così istintivamente esibita. La buona fede c’è tutta, non mi piace però quello che è stato detto. Io sono contro tutte le generazioni, perché patteggio spudoratamente per le degenerazioni. E non pensate male di me: si deve degenerare inevitabilmente per poter essere liberi dai drammi dell’ambiente circostante, dalle sue imposture e dalle perversioni (l’ansia della perfezione estetica, lo stacanovismo, la sottomissione ad un pensiero apodittico…). Degenerate, dunque, tanto e bene per poter finalmente non assomigliare a nessuno. E queste ragazze e ragazzi del 2000, se si liberano dalle gabbie sociali, possono dare una lezione ai tanti quarantenni che gozzovigliano nel bar della banalità.

tiziano.rp@gmail.com

Torna in alto