L’attore, celebre per «NYPD Blue», star nella serie prodotta da Ridley Scott: «È un fanta-horror»
La sua carriera è decollata quando aveva solo 12 anni, grazie al ruolo da protagonista nella serie tv per ragazzi Bayside School dove interpretava l’alunno Zack Morris.
Oggi Mark-Paul Gosselaar di anni ne compirà 45 il primo marzo, e per lui molte cose sono cambiate. Chi non l’ha mai perso di vista (nella serie tv NYPD Blue, ad esempio, dava il volto a John Clark) sa che da molto tempo il caschetto biondo ha lasciato spazio ai capelli corti, e che lo sguardo rubacuori del liceo è stato soppiantato da uno ben più mascolino, reso ancora più credibile da un fisico atletico e muscoloso.
Una fisicità che gli calza a pennello nel ruolo di Brad Wolgast in The Passage, la serie piena di azione quasi cinematografica che lo vedrà protagonista dal 28 gennaio su Fox, prodotta da Ridley Scott con Matt Reeves e diretta da Liz Heldens. In questo vampire drama tratto dalla trilogia best seller fanta-horror di Justin Cronin di cui lo stesso Gosselaar si è definito fan fedele, l’attore è un ex agente delle forze speciali americane al servizio del governo per un progetto segreto e discutibile dal punto di vista etico. Alcuni condannati a morte ed ergastolani vengono usati come cavie per testare un virus che potrebbe curare tutte le malattie del mondo, ma anche porre fine all’intera razza umana creando vampiri. Amy Bellafonte (Saniyya Sidney), un’orfana di dieci anni sottoposta al test, diviene l’unica possibile soluzione alla fine della civiltà ma Wolgast ha intenzione di proteggerla a ogni costo. Per entrare nel suo personaggio Gosselaar ha voluto lo stesso istruttore assunto da Keanu Reeves per John Wick e si è sottoposto a un allenamento molto intenso fatto di combattimenti corpo a corpo, uso delle armi e una sua vecchia conoscenza, il jujitsu. Perché fin da ragazzo due cose hanno accompagnato la sua vita: lo sport e la disciplina. «Quando sei sul set molte ore e ti devi anche allenare non è semplice, ma sono sempre molto rigido nel seguire dieta, esercizi e tutto quel che serve per rimanere in forma», spiega. E forse è stata anche la sua forza di carattere a tenerlo lontano dalle brutte strade in cui sono scivolate molte giovani star di Hollywood, incapaci di gestire un successo inaspettato. Gliene chiediamo conferma, a Londra, dove lo incontriamo.
Che cosa l’ha tenuta lontano dalle cattive abitudini?
«Non direi una cosa sola. Mia moglie, i miei figli… Amo lavorare in questo settore e adoro recitare ma non lascio che sia questo a definire chi sono. Ho sempre avuto degli aspetti che il pubblico non vedrà mai di me».
Che cosa l’ha colpita di questo progetto?
«Non c’è romanticismo nei nostri vampiri: sono killer, macchine create da un virus. All’inizio sembra tutto bianco o nero, ma andando avanti si scoprirà che nulla è come sembra. A chi ama i libri di Justin Cronin dico: siamo stati fedeli, ma ci saranno sorprese».
In The Passage c’è molta azione. Le piace questo aspetto?
«Amo quando le cose diventano fisiche, sono cresciuto così: da ragazzo gareggiavo in motocross, poi sono passato alle auto da corsa e poi agli aerei. Ho sempre amato lo sport e mi sono allenato molto per questo ruolo. The Passage è un progetto grandioso, il migliore per la tv cui abbia mai preso parte».
Il suo personaggio è molto protettivo verso Amy. Com’è andata con lei?
«Ha l’età di mia figlia e la nostra vicinanza è cresciuta nella storia così come sul set. Mi vede come una figura paterna».
Le ha dato qualche consiglio?
«No, preferisco dare l’esempio con i miei comportamenti sul set. E poi non ne ha bisogno, ha due genitori meravigliosi che la supportano».
Dopotutto lei è diventato famoso alla sua stessa età…
«Se fosse accaduto di questi tempi tutto sarebbe diverso, perché allora non c’erano i social media e questo mi ha aiutato a proteggere la mia vita. Il massimo che poteva capitarmi era incontrare qualche fan per la strada che mi chiedeva un autografo o una foto. Ma era raro, se lo paragoniamo a ciò che può succedere oggi. Non voglio dire che sia meglio o peggio. Dico solo che, grazie a Dio, in quegli anni non c’erano i social media…».
Chiara Bruschi, il Giornale