(di ANTONIO MONDA, malady Repubblica) La consacrazione di una star hollywoodiana segue costantemente due percorsi complementari: la strada di chi si afferma nel cinema mainstream e poi cerca una consacrazione in quello di qualità, e quella di chi invece parte nel cinema arthouse e percorre quindi il cammino inverso, tentando di sfondare nei film di grande budget. La serie Twilight ha generato due esempi del primo caso: Robert Pattinson è stato poi consacrato da David Cronenberg con l’adattamento di Cosmopolis di Don De Lillo, mentre Kristen Stewart da Olivier Assayas in Sils Maria. Alla seconda categoria appartengono invece Jessica Chastain, scoperta ne L’albero della vita da Terrence Malick e poi protagonista in molti film dalla grana meno nobile; e Shailene Woodley, lanciata da Alexander Payne in Paradiso perduto e quindi star di Divergent o Colpa delle stelle. C’è anche chi intreccia costantemente le due strade: Jennifer Lawrence si è messa in luce con Un gelido inverno, è divenuta popolarissima con la serie Hunger Games, ed è approdata quindi al cinema di David O’Russell, che rappresenta una sintesi esemplare tra i due poli.
Chi conosce Hollywood sa che il talento rappresenta soltanto un elemento di questo percorso, ciò che conta è la capacità di sedurre il pubblico e creare un’immagine che dia allo spettatore un’illusione di dialogo e condivisione, mantenendo tuttavia un’assoluta inarrivabilità: caratteristiche che costituiscono l’essenza del divismo. I grandi produttori e gli agenti riconoscono perfettamente i talenti degli artisti, a volte anticipando il gusto del pubblico, a volte seguendo un’esplosione che avviene inaspettatamente. E sanno che ciò che distingue una superstar da una semplice star è la capacità di conquistare sia il pubblico maschile che femminile: nel recente passato è stato il caso di Harrison Ford, Julia Roberts e Meryl Streep.
Emergenti, shooting star, promesse… ci sono tante formule diverse per indicare un attore su cui tenere gli occhi. E la costruzione di una carriera è una difficile operazione che mette in campo scelte impegnative. Ecco i nomi da tenere a mente. Potrebbero essere i premi Oscar di domani. Qui accanto Imogen Poots
Ogni anno Hollywood stila le liste delle star del domani sulla base del talento, la cosiddetta bankability, e le pressioni degli agenti e degli addetti stampa. Ovviamente non tutte le previsioni vengono rispettate (una classifica del 2001 invitava a scommettere su Estella Warren, che finora non ha mantenuto le aspettative generate con Il pianeta delle scimmie), tuttavia si tratta di un indicatore fondamentale per comprendere i gusti del momento e gli investimenti in atto. Un nome oggi molto in voga è quello di Scott Haze, protagonista di Child of God, adattamento del romanzo di Cormac McCarthy diretto da James Franco, che lo ha già richiamato a interpretare un remake di Uomini e topi e Bukowski. Haze dice di prediligere il cinema d’autore e rivendica un retroterra teatrale, ma ha già imparato a cimentarsi nei generi: tra i prossimi impegni il film di fantascienza Midnight Special. Sono in molti a scommettere anche su Douglas Booth, che si è messo in luce in uno dei ruoli più ambiti di tutti i tempi: Romeo nella versione diretta recentemente da Carlo Carlei. Inglese di nascita, dopo aver lavorato a fianco di Russell Crowe in Noè sta preparando Jupiter – Il destino dell’universo e una delle più incredibili variazioni da Jane Austen: Orgoglio, pregiudizio e zombi.
Questa generazione nata negli anni Novanta accentua due tendenze diffuse: l’ecletticità e l’ironia che sconfina nel totale disincanto. È il caso anche di Imogen Poots: anche lei inglese, ha interpretato piccoli ruoli in film come V per Vendetta o Quel momento imbarazzante prima di diventare protagonista con Peter Bogdanovich in Tutto può accadere a Broadway (in Italia da aprile) e con Malick in Knight of Cups (verrà presentato in febbraio a Berlino). Queste esperienze nel cinema d’autore non le hanno fatto disdegnare una partecipazione a Need for Speed, tratto da un videogioco. Appartiene invece all’aristocrazia hollywoodiana Scott Eastwood, lanciato dal padre Clint in Gran Torino. In Fury recita a fianco di un sex symbol della generazione precedente come Brad Pitt e di un altro consacrato solo pochi anni fa, Shia LaBeouf: una scommessa che può segnare la consacrazione o l’oblio.
Tra i volti che si stanno affacciando sulla ribalta c’è poi chi preferisce non uscire dal sentiero dei blockbuster: Henry Cavill, che da ragazzino recitava Shakespeare, è il nuovo volto di Superman ne L’uomo d’acciaio. Ha firmato contratti ricchissimi per i prossimi cinque anni, e per il momento non si vedono tracce di film d’autore: dopo tre nuovi episodi nei panni del supereroe lo vedremo nella versione cinematografica della serie televisiva The Man from U. N. C. L. E. Più vario il percorso di Aaron Johnson: si era messo in luce interpretando John Lennon, ha dimostrato di poter essere un action movie hero in Kick-Ass, ma poi ha interpretato Vronskij in Anna Karenina accanto a Keira Knightley. Non molto diverso l’itinerario di Oscar Isaac: dopo essere stato trascurato dagli Oscar in A proposito di Davis, si è consolato con il nuovo episodio di Guerre Stellari e ha interpretato da protagonista A Most Violent Year, il nuovo film del regista giovane più celebrato del momento, J. C. Chandor.
Un ennesimo esempio di attore partito dal cinema d’autore che ha cercato il successo commerciale è un altro inglese come Theo James. Dopo aver lavorato con Woody Allen in Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni ha interpretato film d’azione e di fantascienza, ascoltando tuttavia sempre il richiamo della qualità: ha voluto fortissimamente partecipare all’adattamento di London Fields di Martin Amis. Accanto a lui Johnny Depp, che è stato tra i primi, venti anni fa, a comprendere come sia salutare spaziare nei generi e mescolare il cinema d’autore con quello commerciale.