Chiamatemi Tony King: «Quando mia madre mi disse: non posso cacciarti dal mio cuore»

Chiamatemi Tony King: «Quando mia madre mi disse: non posso cacciarti dal mio cuore»

La parola che Tony King non ha mai sopportato è solo una: normalità. «Credo che la normalità non esista. Nè per una coppia etero, né per una coppia gay. Per me la normalità non ha senso», rivela Tony al telefono dalla sua casa nel Rione Sanità in occasione dell’uscita di Chiamatemi Tony King, la docu-serie in tre puntate disponibile dal 16 dicembre su Discovery+ nella quale il trapper parla del percorso di transizione che lo ha portato a diventare quello che ha sempre saputo di essere: un uomo nato in un corpo sbagliato. 

Tony – che ha scelto come nome d’arte King perché voleva «qualcosa che mi definisse come uomo» – è uno dei nomi più interessanti della scena musicale partenopea, e ha scelto di raccontare la sua esperienza in televisione, in un lavoro prodotto da Darallouche e diretto da Giuseppe Carrieri, per «far trovare il coraggio a tante persone di affrontare questo tema senza veli». 

Nel documentario, racconta che da bambino era già chiaro quello che provava.
«All’Epifania mio padre fece dei regali a me e a mio fratello: da un lato mise quelli maschili e dall’altro quelli femminili. Io, però, andai subito sul lato celeste». 

Reazione del papà?
«Non se l’aspettava, mi aveva comprato le bambole».

Non ci ha giocato nessuno con quelle bambole?
«No. Alle bambole tagliavo i capelli, scrivevo in faccia: le odiavo. Era come se le volessi far diventare da donna a uomo. Un po’ quello che sono diventato io col tempo».

Ha ricevuto altre bambole dopo?
«Da mia mamma. Poi hanno capito che con le bambole non era cosa, e hanno iniziato a farmi regali più maschili».

Quando l’hanno capito?
«Credo che un genitore lo capisca fin da subito, ma ha bisogno del suo tempo per accettarlo».

Quanto ci è voluto per accettarlo ai suoi?
«Per mio padre ci è voluto un po’ di tempo: aveva paura di essere criticato e giudicato perché nei quartieri funziona così. Con mia mamma è stato tutto più semplice».

Come ha scelto di raccontarlo?
«A mio padre ho scritto una lettera, mentre a mia madre l’ho confessato su Facebook. Le dissi che ero fidanzato con un ragazzo che si chiamava Antonio, solo che Antonio ero io. Lei mi disse che non poteva cacciarmi dal suo cuore e che avrebbe accettato tutto quello che ero». 

Quanti anni aveva?
«14».

Quando ha pensato, invece, di voler cambiare serialmente sesso?
«A 17 anni, due giorni dopo il compleanno di mio padre: era l’11 febbraio del 2017. Lì ho tagliato i capelli per la prima volta: ancora oggi mi chiedo come abbia fatto a convincerlo».

Con gli amici tutto questo percorso è avvenuto prima?
«Sì. A 10 anni ho baciato una ragazzina di cui ero innamorato, ma sua madre scrisse a mia zia che mi voleva denunciare. Sono nato con le minacce».

Nel documentario parla di un «amore a prova di proiettile». Oggi c’è ancora?
«No».

Con le altre ragazze che ha avuto è sempre stato così difficile?
«È sempre stato un po’ così tranne con una ragazza con cui sono stato fidanzato tre anni: la sua famiglia mi adorava. Poi ho sbagliato io, mi sono comportato male, ed è finita». 

Secondo lei, fuori dalla Sanità, le cose sarebbero diverse? 
«Credo che anche a Milano si trovi gente che ti giudica e ti critica. Solo che a Napoli ce n’è molta di più».

Eppure Napoli un po’ aperta lo è.
«Non per quello che ho vissuto io. Magari sono capitato nella parte sbagliata di Napoli. Il pensiero di avere un figlio gay è ancora un tabù».

Resta che il suo quartiere, nonostante tutto, le piace molto. 
«Lo porto dentro di me, per quanto possa essere sbagliato. Lo reputo un paradiso abitato da diavoli. Se le persone fossero migliori, sarebbe il paradiso terrestre».

Tornando al suo percorso di transizione: mai avuto un ripensamento?
«Mai nella vita. Odio i rimorsi: che sia per la transizione, l’amore o altro. Se ho fatto qualcosa è perché lo volevo in quel momento».

Non ha rimorsi neanche nella musica?
«Non ho mai scritto qualcosa che non ho vissuto. In Blitz, per esempio, racconto di malavita perché l’ho vista con i miei occhi, a differenza di molti trapper che ne parlano pur abitando al Vomero».

Ha sempore sognato di fare il cantante?
«Sognavo di vivere di musica, o come cantante o come musicista. Ho suonato il violino in un’orchestra sinfonica, sono sempre stato molto determinato: quando credi in qualcosa, quella cosa prima o poi si avvera».

Pensa che oggi il suo sogno si sia realizzato?
«Abbastanza, anche se per me la realizzazione è molto altro di quello che ho adesso».

E cos’è?
«Vorrei che tutte le persone che ascoltano le mie canzoni capissero che faccio musica per un obiettivo: far capire agli altri che la diversità non esiste. Come canto in L’ammore è ammore». 

Quanti tatuaggi ha?
«Una ventina. L’ultimo è Bulletproof Love, che ho fatto per una scommessa persa con i miei amici. In generale sono molto tranquillo: non bevo, non faccio uso di droghe leggere. Molti lo fanno per divertirsi, ma per me il divertimento è altro».

Cos’è il divertimento per lei?
«Stare con gli amici e con la fidanzata, fare sciocchezze come i bambini». 

Nel suo futuro, si vede ancora alla Sanità?
«Penso che qualsiasi altra parte del mondo non possa mai darmi quello che mi ha dato Napoli: è qui che sono diventato una persona forte e ho realizzato il mio sogno. Le cicatrici che mi sono fatto qui non le cambierei con nessuna parte del mondo». 


VanityFair.it

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