L’ultima provocazione organizzata con Gucci: una rassegna nel Paese delle imitazioni
Ancora lei. Un gigantesco primo piano di Marina Abramovic sui muri di Londra, Milano, New York e Hong Kong. A guardare bene però è un sosia, come quelli che si presentano alle convention degli imitatori di Elvis e o di Marilyn. Pubblicità (ingannevole) della leggendaria performance The Artist is Present. Ma allora cosa c’entrano il nome di Maurizio Cattelan, il logo Gucci e l’indicazione dello Yuz Museum di Shanghai? Siamo alla celebrazione dell’arte del falso, della copia, del tarocco. Gli elementi ci sono tutti: l’artista che ha fermato il suo ciclo produttivo «regolare» nel 2011 e da un po’ di tempo gioca con il ribaltamento dei ruoli, curatore e organizzatore di eventi; il fashion brand italiano tra i più falsificati al mondo, le cui copie si vendono a poco prezzo in spiaggia e su bancarelle non autorizzate; il Paese del tarocco, dove l’imitazione a basso costo è un’arte e l’arte (quella che vorrebbe essere seria) è il frutto di altrettante parodie del mondo occidentale. Sempre in agguato la provocazione quando c’è di mezzo Maurizio Cattelan. A dargli manforte il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, perché l’arte serve alla moda per nobilitarsi e la moda all’arte per la popolarità. Le sue analisi non vanno certo per il sottile, il suo stile non esce dal sensazionalismo degli anni ’90, riveduto, corretto e adattato ai nuovi tempi globali che stanno distruggendo buona parte delle convinzioni e delle convenzioni novecentesche, basate sui principi di autorialità, originalità e capacità dell’arte di anticipare il mondo, non di adattarvisi con supina rassegnazione. The Artist is Present è dunque il titolo (taroccato) della mostra con cui Cattelan sbarca a Shanghai e allestita fino al 16 dicembre. Coinvolti una ventina di «colleghi», diversi sono cinesi, con opere nuove o di repertorio, tra il falso d’autore, l’imitazione, la cover non autorizzata, la copia bella e buona. Nella storia c’è chi ci aveva già provato a lavorare sull’inganno percettivo, da Lawrence Weiner a Sturtevant, da Wim Delvoye a Gillian Wearing. Qui ci sono diversi lavori ad hoc, una borsa di Gucci in Lego di Andy Hung Chi Kin, l’imitazione dei bagni privati della Comunità europea dei Superflex, il rifacimento in piccolo della Cappella Sistina ideato da Cattelan stesso e affidato a un pittore cinese. Non molti vedranno la mostra, in molti ne stanno parlando perché il tema pur non originalissimo – induce alla riflessione, a cominciare dal ruolo dell’artista di oggi, un saltimbanco a cui non si chiede più di épater le bourgeois ma di limitarsi a piccoli scherzi dalla natura goliardica. Periodicamente ci si è interrogati sulla «morte dell’arte», cercando di rimandare a domani l’apocalisse, ma qui siamo davvero pronti alla celebrazione del definitivo funerale. A cominciare da un principio fondante della cultura occidentale, ovvero la centralità dell’autore che, di fatto, distingue l’arte dal resto. Senza la «firma» di Giotto la pittura sarebbe rimasta puro artigianato da bottega, mera rappresentazione dell’esistente eseguita senza regole precise. Stiamo parlando degli inizi del 300, l’esordio di quel processo che porterà alla definizione degli stili che si avvicenderanno nella storia, dal Romanico al Gotico fino allo splendore del Rinascimento, l’enfasi del Barocco verso la modernità. Una rivoluzione partita da un Paese piccolo e frammentato in municipalità, talmente forte da trascinarsi dietro buona parte dell’Europa. In tempi lontani, quando altrove le manifestazioni artistiche non esistevano, oltre l’artigianato il più delle volte era il deserto assoluto. Arte come immagine dell’ingegno umano, ricerca, linguaggio, bellezza, in stretta connessione con la filosofia e il pensiero. È stato così per secoli, eppure oggi vogliono farci credere che la pars destruens sia l’unica degna di nota. Non quella forza insita nelle avanguardie, bensì l’esternazione dello svacco, del cazzeggio, dell’assenza di profondità, di un nichilismo non costruttivo che dovremmo lasciare in eredità alle prossime generazioni, non fossero già messe a dura prova dalla vuotezza della «nuova» politica. Un conto era Duchamp, un altro l’inesausta tribù di nipotini, Cattelan in primis, cui è sufficiente tecnologizzare il prodotto, renderlo attuale nella forma, togliergli qualsiasi significato aldilà del transeunte. Eccoci all’artista come becchino. Una logica inaccettabile e disumana, senza contenuto, che insegue banalmente la comunicazione. Va giusto bene per la Cina che ha visto cancellata la tradizione dal sangue di Mao. Non per noi, primo mondo sviluppatosi sulla nobiltà della cultura, che rischia di venir distrutto dal fuoco amico alleato all’esercito del tarocco a basso costo.
Luca Beatrice, Il Giornale