Di gavetta ne ha fatta tanta, capsule sin dai primi anni Ottanta, look quando dalla provincia emiliana si era trasferita a Milano. La tv arriva solo nei primi anni Novanta, grazie a Milano, Italia di Gad Lerner (e poi di Gianni Riotta), per poi passare a Punto e a capo, programma culturale della seconda Rete
Per qualcuno è epidermicamente antipatica, per altri è solo algida al punto giusto e al massimo un po’ legnosa. A molti piace, a molti altri no. Daria Bignardi, ferrarese, classe 1961, nuovo direttore di RaiTre, è divisiva da sempre. Eppure di gavetta ne ha fatta tanta, sin dai primi anni Ottanta, quando dalla provincia emiliana si era trasferita a Milano. La tv arriva solo nei primi anni Novanta, grazie a Milano, Italia di Gad Lerner (e poi di Gianni Riotta), per poi passare a Punto e a capo, programma culturale della seconda Rete.
Il passaggio a Canale5 è merito di Gregorio Paolini, che la vuole alla conduzione di A tutto volume in coppia con David Riondino, andando a sostituire Alessandra Casella. Il colmo è che l’algida Daria sfonda grazie ai talk show, il genere televisivo che più degli altri ti mette a stretto contatto col pubblico: il suo primo vero successo di ampia portata è infatti Tempi Moderni, un talk all’americana nel quale la giornalista ferrarese riusciva a tenere insieme la vocazione giovanile e commerciale di Italia1 e un certo approccio giornalistico di qualità.
Tempi moderni è l’anticamera del successo, quello che porta fama e anche parecchi soldini. Nel 2000, infatti, è proprio la Bignardi a condurre la prima stagione del Grande Fratello, il padre di tutti i reality. Era l’edizione di Taricone e di Salvo il pizzaiolo, di Rocco Casalino e della gatta morta Marina, del macellaio Lorenzo e della sedotta e abbandonata Cristina. Un successo clamoroso di pubblico che non si può analizzare leggendolo con gli occhi di chi è abituato al Grande Fratello di oggi. Il Gf della Bignardi non ha nulla a che fare con quello della Marcuzzi (e della D’Urso). Era davvero un esperimento sociologico, con un manipolo di ignari ragazzi messi dentro quattro mura per capire chissà cosa, senza contezza di quanto sarebbe successo dopo, del successo e della fama, del gossip e dei soldi. La casa di Cinecittà era ampia ma non certo lussuosa come quella di oggi, per fare sesso si costruivano ripari improvvisati con i cuscini del divano, altro che le gesta pruriginose di chi ci entra oggi, in quella casa. Ma questa è un’altra storia, e serve solo a farci capire come Daria Bignardi seppe mollare il programma prima che si imbarbarisse (esattamente dopo la seconda stagione). Imbarbarimento puntualmente arrivato, peraltro.
E cosa va a fare, una conduttrice reduce da un successo così clamoroso? Un varietà di prima serata? Nossignore, perché se la Bignardi ha un pregio è quello di conoscere i propri limiti e di non aver voluto mai fare cose al di là delle proprie inclinazioni naturali. Daria torna ai libri e crea Lando, andato in onda su Italia1, tornando al reality solo qualche tempo dopo con La fattoria (anche in questo caso la prima edizione era molto diversa rispetto a quelle che sono arrivate dopo, peraltro sempre “grazie” a Barbara D’Urso).
Nella stagione televisiva 2004/2005 arriva l’altra svolta, con l’ideazione e la conduzione di Le invasioni barbariche su La7. Altro talk cucito addosso alla Bignardi, con un mix di discussioni con vari ospiti e interviste one to one con personaggi del mondo della politica, dello sport, della cultura e dello spettacolo. Il programma va così bene che Daria firma un contratto con la Rai, dove conduce L’era glaciale (una sorta di Invasioni sotto altro nome). Ma l’esperienza in Rai va male, assai male, e l’anno dopo è di nuovo su La7, di nuovo alla guida delle Invasioni, fino alla chiusura definitiva del programma dello scorso anno. Incredibilmente proprio la stagione in cui la Bignardi aveva provato (con qualche successo) di lasciarsi andare un po’ e provare anche a divertirsi, oltre che a condurre con il solito piglio perfezionista. Ascolti bassi, è vero, ma su La7 c’era poco da fare gli schizzinosi.
Negli ultimi anni, poi, il neodirettore di RaiTre si era reinventata scrittrice di romanzi, e anche qui con un certo successo di pubblico e critica: prima l’autobiografico “Non vi lascerò orfani” (2009), poi “Un karma pesante” (2010), “L’acustica perfetta” (2012), “L’amore che ti meriti” (2014), “Santa degli Impossibili” (2015). Ora, a sorpresa, arriva addirittura la direzione di RaiTre, mentre cominciano a farsi largo i soliti commenti: “è renziana”, “è la moglie di Luca Sofri, che è renziano” (qui c’è la combo), “è la moglie di Luca Sofri, che è il figlio di Adriano Sofri”. Tutte informazioni vere, beninteso, ma che forse puzzano un po’ di maschilismo.
In fondo, se vogliamo essere sinceri, in famiglia quella che ha fatto più soldi e successo è lei, non il marito. Certo, essere una renziana di stretta osservanza le avrà giovato. Piuttosto, la sfida che si trova a dover affrontare la Bignardi non è facile: RaiTre esce malconcia dalla direzione Vianello (al quale va riconosciuto il merito di aver voluto sperimentare nuove strade, anche a costo di andare a sbattere contro muri in cemento armato eretti dai dati Auditel) e ha bisogno di trovare una nuova identità di rete, partendo dai pochi punti fermi. Report, Che tempo che fa, Gazebo, Chi l’ha visto?, Blob, Presa diretta: tutti programmi di successo e di qualità, ognuno nel proprio genere, ma davvero la terza rete deve essere condannata a vivere di passato, senza riuscire a piazzare un successo al passo con i tempi? Già alcuni canali tematici sul digitale terrestre (e persino sulla pay tv satellitare, quando ci sono talent o serie di successo) più volte hanno operato il sorpasso su RaiTre in prima serata. Daria Bignardi dovrà porre rimedio a questa situazione. E sui risultati che otterrà, e solo su quelli, andrebbe giudicata.
Il Fatto Quotidiano