È il vincitore degli Oscar europei
Dedicato alla memoria dei genitori, a un’epoca storica tumultuosa, a un presente pericoloso, ma soprattutto agli amori impossibili, quelli nati nel segno del «né con te né senza di te», Cold War, trionfatore l’altra sera agli Efa con 5 riconoscimenti, è ora in corsa per la cinquina degli Oscar al miglior film straniero.Una gara che quest’anno vedrà, curiosamente, gareggiare due film-capolavoro girati in bianco e nero, da una parte Roma del messicano Alfonso Cuarón (candidato agli Oscar anche nelle altre categorie), dall’altra Cold War del polacco Pawel Pawlikoski, già vincitore della statuetta nel 2015 con Ida, anch’esso in bianco e nero: «Non volevo ripetermi – spiega il regista – e in un primo momento avevo pensato di girare a colori, poi mi sono reso conto che non avrei potuto farlo, perché non avevo idea di quali tonalità scegliere. A differenza dell’America che, negli Anni ‘50, erano fatta tutta di colori saturi, la Polonia aveva sfumature indefinite, oscillanti tra il grigio, il marrone e il verde».Colori frutto della Storia: «La Polonia era stata distrutta, le città erano in rovina, in campagna non c’era elettricità, la gente vestiva con tinte scure e grige. Mostrare tutto questo con colori vividi, avrebbe significato fare un film completamente falso. Il bianco e nero mi è sembrato il modo più onesto e diretto per ottenere quello che volevo».Sulla scelta, in modo non razionale, avranno influito le memorie personali, le vecchie foto di famiglia, le stesse che avranno ugualmente influenzato l’immaginario di Alfonso Cuarón, anche lui, come Pawlikowski, alle prese con il vissuto autobiografico dei propri genitori: «E’ la scelta iniziale del film – ha spiegato il regista messicano vincitore del Leone d’oro 2018 -, per me assolutamente indiscutibile. Tutto è stato ricostruito in base a questa decisione, a cominciare dai costumi».Il cuore di Cold War (da giovedì nelle sale con Lucky Red) batte nelle figure dei protagonisti, il musicista Viktor (Tomasz Kot e la cantante Zula (Joanna Kulig): «Mio padre e mia madre – dice Pawel Pawlikowsi – erano due persone forti e meravigliose, ma, come coppia, erano un disastro totale. La loro vita non ha avuto niente di palesemente romanzesco e, dopo che sono scomparsi, più ci pensavo e meno mi sembrava di capirli».Nella relazione tormentata, dall’immediato dopoguerra alla Polonia staliniana, dalle delazioni all’ombra della Cortina di ferro alle fughe nella Parigi «bohemienne», si rispecchia il senso universale della sconfitta, la repressione dei regimi totalitari, la spinta alla ribellione, l’insicurezza di chi ha visto sgretolarsi il mondo in cui è cresciuto: «La storia dei miei, così caotica e complicata, mette in ombra tutte le altre, ci pensavo da dieci anni, dopo il successo di Ida ho trovato il coraggio di raccontarla». Riletta oggi, aggiunge l’autore, «appare piena di risonanze, le tendenze al totalitarismo si avvertono un po’ ovunque, anche nel mio Paese, per questo bisogna stare molto vigili».Dal pubblico polacco Pawlikowski prevede possibili reazioni critiche per «non aver sottolineato a sufficienza il terrore e le sofferenze causati dal regime comunista». Un’epoca di cui ricorda con precisione il clima di tensione: «A casa potevamo dire quello che pensavamo, ma bisognava stare molto attenti a quello che dicevamo a scuola».Per tutte queste ragioni la serata degli Efa, stavolta fortemente segnata dall’afflato europeista, ha lasciato in Pawlikowski il segno di un’emozione forte: «Sinceramente agli Oscar non ci ho ancora pensato, oggi sono emozionato per questa vittoria europea e per tutto il calore che ho sentito qui. E poi so che gli Oscar sono legati a campagne promozionali imponenti». L’ultima precisazione riguarda il padre: «La canzone cantata dalla protagonista Zula era una passione di mio padre, per questo ho voluto che fosse nel film».
Fulvia Caprara, lastampa.it