“Sono sempre stato uno né copertinabile, né scopertinabile e né tantomeno premiabile. Si premiano poco i film che incassano soldi.
Ci sono ancora giornalisti chi mi incontrano e mi dicono: ‘andavo a vedere i tuoi film di nascosto, altrimenti al Corsera e a Repubblica mi licenziavano'”. Così stamani alla Casa del Cinema di Roma un Lino Banfi ironico, ma non troppo, ha presentato il libro di Alfredo Baldi LE MOLTE VITE DI LINO BANFI (Edizioni Sabinae) insieme all’autore e Milena Vukotic (tra l’altro moglie di Baldi).
Una carrellata sulla vita dell’attore pugliese destinato, a undici anni, alla carriera sacerdotale quando si chiamava ancora Pasquale Zagaria, per poi lasciare il seminario e dedicarsi alla sua vera passione: far divertire il pubblico da un palco. Prima l’avanspettacolo, poi il più redditizio cabaret, il cinema, fino al Lino della televisione che lo consacra attore a tutto tondo. “Il gran premio alla carriera? Quello che sta succedendo in questi giorni agli Europei con Ciro Immobile che scandisce il mio ‘Porca puttena’ in tv dopo aver segnato. E poi tra un po’ compio 85 anni. Insomma, restando nell’ambito del calcio, sto già ai tempi supplementari, chissà se arrivo ai rigori”.
Due gli aneddoti raccontati dall’attore alla Casa del Cinema: la sua esperienza di posteggiatore abusivo e l’operazione alle tonsille per mangiare e sfuggire al freddo. “Nel ’53 andai a Milano e alla stazione mi imbattei i caporali che trovavano il lavoro a noi immigrati. Quando capirono che avevo studiato – spiega Banfi – fu difficile collocarmi, così mi assegnarono a un posteggiatore abusivo. Avevo allora 17 anni. Il posteggiatore che incontrai mi diede un cappello e mi impose di tagliare le tasche. Non capivo quello che stava succedendo, poi mi resi conto che voleva le mie tasche sfondate in modo che non potessi nascondere gli spicci che mi davano. Nello stesso periodo mi diedero poi anche una pillola che potesse ingannare i medici sulla salute delle mie tonsille. Andare in ospedale e operarmi era per me un modo per mangiare e stare al caldo”. La pugliesità? “Non è mai esistita. Non c’era una tradizione come a Napoli, così quando negli anni Settanta a ‘Senza rete’ mi diedero pochi minuti per ogni puntata, cominciai ad inventare un dialetto tutto mio, dicevo qualcosa tipo: Pippo Beudo ed Iva Zaniccoli. La cosa ha funzionato, ma gli intellettuali baresi non mi hanno mai perdonato per questo”. Il nome d’arte? “Me lo ha dato Totò in persona. Fino al ’52 mi chiamavo Lino Zaga, diminutivo di Zagaria. Quando Totò scoprì questa cosa mi disse subito: ‘Il nome va bene, ma non si fanno diminutivi dei cognomi. Porta male’. E io l’ho subito cambiato aprendo un registro e trovando un cognome a caso. Era Banfi”.
Francesco Gallo, ANSA