Il regista racconta con grande umanità la storia di un mite trascinato in un infernoStraordinaria forza emotiva nelle sequenze ambientate in una città semidesertica
Un personaggio che perde la sua innocenza e un regista che ce lo racconta con tutto l’amore possibile. Non comprensione, che implicherebbe un qualche tipo di «complicità», ma amore, affetto, partecipazione. Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone presentato ieri a Cannes in concorso, oscilla tra questi due poli e da loro trae la sua straordinaria forza emotiva e visiva, storia di un uomo trascinato in un ingranaggio mortifero di sopraffazione e che di questa discesa ai limiti dell’incolpevolezza finisce per farsi carico. Come un povero cristo laico e sprovvisto di santità. Lo spunto viene dalla cronaca, quella del «canaro della Magliana», ma sbaglierebbe chi ne aspettasse gli aspetti più trucidi e crudeli. Altro interessa a Garrone (che firma la sceneggiatura insieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) ed è piuttosto la solitudine di un uomo, Marcello (Marcello Fonte), mite anche se costretto a vivere in un mondo dove la sopraffazione e la forza sembrano sempre vincere. La sua mitezza si rivela nel rapporto con la figlia Alida (Alida Baldari Calabria) che ogni tanto viene a trovare il padre separato: insieme si regalano escursioni solitarie sott’acqua, lontani e come protetti dalle brutture del mondo. Con cui però Marcello deve fare i conti per il resto della sua vita. Evidente che si trovi meglio con gli animali, come i cani che lava e custodisce e con cui arriva a dividere anche il cibo (una delle piccole scene con cui Garrone sa sintetizzare l’umanità e insieme il degrado del suo personaggio). Gli uomini sono più aggressivi, più ostici, a cominciare dall’amico e complice Simoncino (Edoardo Pesce), specie di energumeno che impone a Marcello le sue scelte e lo trascina in furti e altre illegalità, a cui però il «canaro» resta attaccato come a un fratello maggiore, protettivo e spavaldo, e che cerca di ingraziarsi dividendo con lui la cocaina che si procura.Un’umanità senza speranza né futuro (anche senza presente, verrebbe da dire) che il regista ambienta in un non-luogo altrettanto sprovvisto di speranza, il Villaggio Coppola di Castel Volturno, costruito negli anni Settanta per le truppe americane della Nato e poi abbandonato per altre sedi, una specie di città semidesertica che abbraccia e imprigiona chi è restato. È la quinta ideale, che il sole fatica a riscaldare e i temporali incupiscono, a metà frontiera e a metà apocalisse, rifugio perfetto per un mondo di reietti e di emarginati, i cui rapporti non possono che essere basati sulla reciproca sopraffazione. Così, quando Marcello finisce in galera per coprire le malefatte di Simoncino, si aspetterebbe al suo rilascio, dopo cinque anni di prigione, almeno un po’ di riconoscenza (e una parte del bottino). Senza la quale si innescherà una vendetta dolorosa e drammatica insieme. Tutto questo, che sembra scavare ancora più a fondo delle desolazioni umane raccontate nei film precedenti (e senza nemmeno l’illusione di un possibile riscatto, fosse un matrimonio piccolo-borghese, il potere della mala o la fama della tivù), Garrone lo filma senza cinismo né supponenza. Con un amore incondizionato. E non per spiegare sociologicamente certe condizioni umane ma piuttosto per condividere il loro essere i derelitti dell’umanità. Garrone non fa cinema politico ma cinema umano, anche se scende al grado zero dell’umanità. O forse proprio per questo. E a chi si chiede se ce la farà mai a sopportare una tale squallore, viene in aiuto l’immagine conclusiva, di sconfitta e di abbandono ma anche di dolore e di tristezza: prima ti toglie il fiato ma poi può aiutarti a ritrovare il respiro.
Paolo Mereghetti, Corriere.it