Due ore senza soste, surfando sul pubblico e facendolo saltare ed emozionare nel racconto di una generazione che attraverso Victoria, Damiano, Thomas ed Ethan ha riscoperto il punk e la sua essenza, imparando che non sempre serve stare zitti e buoni.
Un velo rosso che sembra voler arginare le note potenti di Don’t Wanna Sleep cala all’improvviso sul popolo dell’Unipol Arena e i Måneskin appaiono senza filtri in tutta la loro magnificenza. Nessuna parola, nessuna pausa… con una roboante schitarrata finale si passa direttamente a Gossip. Sulle loro teste una astronave di luci. Damiano è un samurai uscito dal futuro. Victoria e Thomas come due musicisti siamesi, spesso incollati nel seminar una tempesta di note. Ethan detta i tempi e vigila alle loro spalle. La scelta, più volte utilizzata nell’arco delle due ore di live, di collegare i brani annulla la dimensione spazio temporale, quell’impalpabile ma fondamentale microsolco che nel vinile divideva le canzoni, i Måneskin lo tramutano in un unicum. Fin da subito si è capito che non sarebbe stata una serata da vivere seduti. E così da Zitti e Buoni in poi sono tutti in piedi e Damiano invita ugualmente a saltare. Victoria suona il basso in ginocchio, sul fronte del palco, come una divinità nordica, una valchiria. Damiano continua ad aizzare Bologna prima di partire con Own My Mind. Si prosegue con Supermodel e poi si rallenta con quella ballata ruvida e amara che è Coraline.
Poi l’attacco di Baby Said. Il rosso resta il colore dominante: passione, sangue, lussuria, demonio e santità. Sempre sul crinale questi pronipoti dei Damned e dei Ramones. Damiano scende dal palco e va alle transenne dopodiché si getta e surfa sulla sua gente! Poi torna sul palco per urlare rabbia in In Nome del Padre. Un segno della croce laico dove cerca di guardare più avanti di ciò che vede! A urlare, a saltare ora sono anche i genitori.