Andrà sugli schermi «The other side of the wind» («L’altra faccia del vento): le bobine erano bloccate da 40 anni per battaglie legali. Netflix finanzierà montaggio e restauro
Le bobine sono partite lunedì 13 marzo da Parigi per Los Angeles: 1.083 scatole di negativi che per quarant’anni sono rimasti custoditi, e bloccati, nei laboratori LTC, poco fuori Parigi. Dentro era conservato tutto il materiale necessario per montare The Other Side of the Wind (L’altra faccia del vento), l’ultimo film girato da Orson Welles, che aveva iniziato le riprese il 23 agosto 1970 ma che non era mai arrivato al momento del montaggio.
Le ragioni, oltre alla proverbiale pignoleria e alla poca metodicità del regista (abituato a portare avanti molti progetti insieme, senza mai finirne nessuno), erano eminentemente economiche: prima la crisi della coproduttrice iraniana Saci, travolta dalla fine del potere dello Scià, poi le liti tra le due eredi di Welles, la figlia Beatrice e l’ultima compagna Oja Kodar, che spesso hanno cercato di ostacolarsi reciprocamente. E proprio le resistenze della Kodar, dicono i bene informati, sono quelle cadute per ultime, quando ormai il progetto di ricostruzione — annunciato nell’ottobre 2014 e mai concretizzatosi — sembrava tramontato. Invece la testardaggine dei produttori Frank Marshall e Filip Jan Rymsza ha avuto la meglio, grazie al decisivo intervento di Netflix, che ha assicurato i capitali per portare a termine l’operazione (e convincere la poco malleabile Kodar) sotto la supervisione artistica di Peter Bogdanovich, a cui Welles aveva affidato il progetto «se gli fosse successo qualcosa».
Non tutti i giorni capita di ritrovare un film dato per perduto e nella carriera di Welles di questi «progetti incompiuti» ce ne sono molti, dal Don Chisciotte (i cui frammenti sono sparsi per l’Europa) a Too Much Johnson (di cui sono state ritrovate a Pordenone le scene non montate), ma The Other Side of the Wind ha un valore particolare, perché nelle sue intenzioni doveva essere una specie di testamento artistico, l’atto finale di un regista che vedeva Hollywood cambiare rapidamente (ed emarginarlo), cancellando troppo in fretta il ricordo del passato. E proprio il passato è il tema intorno a cui gira il film che, come aveva spiegato lo stesso Welles alla rivista spagnola Dirigido por…, raccontava l’ultimo giorno di vita di un celebre regista, J. J. Hannaford, la cui personalità era stata creata mescolando spunti hemingwayani e suggestioni della vita di chi lo interpretava, cioè John Huston. Ma che ci fosse molto di autobiografico, lo ammise lo stesso Welles quando disse che Hannaford era «un vagabondo. La maggior parte delle volte che girò un film lo fece il più possibile lontano dagli studi della California. Lavorava per Hollywood ma portava la sua cinepresa in tutto il mondo». Praticamente il suo ritratto!
Ambientato durante una festa organizzata per il suo compleanno, il film schierava molti altri nomi di Hollywood, tutti accorsi ad aiutare Welles nel suo ultimo progetto: Peter Bogdanovich, Lilly Palmer, Susan Strasberg, Norman Foster, Gary Graves, Curtis Harrington, Dennis Hopper, Henry Jaglom, Paul Mazursky, Claude Chabrol, Oja Kodar, a cui il regista aveva affidato il ruolo dei suoi amici/nemici, divisi — secondo le parole di Welles — tra gli ammiratori che «hanno messo a punto un vocabolario di elogi fino a farlo scoppiare e i suoi nemici che, ancora numerosi, hanno esaurito gli insulti da molto tempo».
A complicare ancora di più la trama, in cui si mescolano presente e passato, anche la voglia di Welles di sperimentare, che lo spinse a girare alcune scene in 8mm, altre il 16 e altre ancora in 35, a volte a colori a volte in bianco e nero, per ribadire che Hannaford «era un uomo con molte maschere». Che i giornalisti nel film cercano di strappargli ma che Welles difende strenuamente, convinto che il «vero mistero di un uomo» non è la natura della sua morte (nel film non si capisce se suicidio o no) ma «la sua natura di uomo, come artista e come fabbricante di maschere».
Corriere della Sera