(PrimaOnline) Marco Bassetti, cialis ex capo di Endemol, oggi alla guida della Banijay Entertainment spiega in un’intervista a Repubblica cosa ne pensa dell’attuale riforma della governance della Rai. Per Bassetti, serve un ripensamento della dell’intero sistema di produzione televisivo, su modello di quello inglese: «Quando fu fatta la riforma nel 2004 fu messo al centro del progetto l’industria creativa e la produzione di contenuti, incentivando il sistema a utilizzare il più possibile i produttori indipendenti e limitando i broadcaster al ruolo di distributori. In Italia è avvenuto praticamente il contrario e i risultati sono sotto gli occhi di tutti».
Aggiunge Bassetti: «In Inghilterra si è deciso di promuovere e incentivare il prodotto nazionale con nuove regole. Channel 4, canale pubblico paragonabile in Italia forse a Rai2, ha l’obbligo di investire il 90% del suo budget dei programmi con produttori indipendenti. Bbc deve farlo direttamente per il 25% e un altro 25% con una modalità mista. Le regole hanno impedito alle tv di comprare in toto i diritti e questo ha costretto i produttori indipendenti a reinventarsi».
Marco Bassetti ”La Rai non basta. va riformata l’intera industria tv” (La Repubblica, 16 marzo 2015)
«Ispirarsi alla Bbc per far uscire dalle secche la Rai senza pensare a una riforma più complessiva del sistema audiovisivo potrebbe essere l’ennesima occasione persa. La Bbc è un pezzo importante dell’industria audiovisiva inglese che va vista nel suo complesso. E poi bisogna iniziare a pensare alle tv non più solo in un’ottica politica, come si continua a fare in Italia, ma come un’industria». Marco Bassetti conosce bene le tv. Oggi è ceo del Gruppo Banijay e lavora con le più importanti tv europee e americane, ma trent’anni fa ha cominciato in Italia, nella Retequattro di Mondadori e poi con Mediaset. Ha portato in Italia il Grande Fratello ma anche Chi Vuol Essere Milionario o Che Tempo Che Fa. Da 9 anni lavora all’estero e fino al 2012 ha guidato come DG e poi come ceo Endemol Group.
E cosa si vede se si guarda il successo dell’industria audiovisiva inglese nel suo complesso? «Quando fu fatta la riforma nel 2004 fu messo al centro del progetto l’industria creativa e la produzione di contenuti, incentivando il sistema a utilizzare il più possibile i produttori indipendenti e limitando i broadcaster al ruolo di distributori. In Italia è avvenuto praticamente il contrario e i risultati sono sotto gli occhi di tutti».
Non è un giudizio un po’ drastico? «Vediamo: nel 2007 in Gran Bretagna il mercato dei produttori indipendenti valeva poco meno di un miliardo di euro, quello italiano circa 600 milioni. Oggi il mercato inglese vale 3 miliardi, generando centinaia di migliaia di posti di lavoro, quello italiano si è dimezzato a 350 milioni. Nonostante questo vorrei ricordare al legislatore che il mercato audiovisivo, senza contare i lavoratori a tempo indeterminato delle tv pubbliche e private, conta in Italia comunque 200 mila addetti per un fatturato complessivo che con l’indotto arriva a circa 1 miliardo di euro. Una nuova legge non può non tenere conto di questo mondo».
Perché? «Perché in Inghilterra si è deciso di promuovere e incentivare il prodotto nazionale con nuove regole. Channel 4, canale pubblico paragonabile in Italia forse a Rai2, ha l’obbligo di investire il 90% del suo budget dei programmi con produttori indipendenti. Bbc deve farlo direttamente per il 25% e un altro 25% con una modalità mista. Le regole hanno impedito alle tv di comprare in toto i diritti e questo ha costretto i produttori indipendenti a reinventarsi, ad andare a vendere da soli all’estero film fiction tv, documentari e entertainment, ossia factual, reality e talent. Scelta che alla lunga ha pagato perché man mano che le società inventavano e vendevano format di successo, si patrimonilizzavano, crescevano di dimensione, diventavano dei giganti dell’industria creativa. In pochi anni nomi sconosciuti come Shine, comprata dalla Fox di Murdoch e oggi fusa in Endemol, o AllThreeMedia, acquisita da Discovery Group, s o n o d i v e n t a t e realtà internazionali da oltre mezzo miliardo di fatturato. Il centro delle strategie dei grandi gruppi audiovisivi si sposta sempre più dalla distribuzione verso i contenuti. Ma c’è di più».
Che cosa? « N e l 2008 il governo inglese ha d e c i s o d i puntare forte sull’industria creativa e tecnologica. Ha creato una sorta di Silicon Valley a Londra, la ‘East London Tech City”, oggi chiamata da tutti Silicon Roundabout, investendo perlopiù sotto forma di incentivi fiscali per attirare nell’area le migliori imprese digitali del Paese. Sono così riusciti a mettere insieme anche in senso fisico una vasta industria creativa e tecnologica, che ha galoppato molto più velocemente di qualsiasi altro settore incluso quello dei serv i z i f i n a n z i a r i , tant’è che hauna quota importante, pari quasi al 5% del pil. Che oggi comprende settori che vanno dall e s o f t w a r e house alle tv, video pubblicitari, musica, cinema, fotografia, arti visive e dello spettacolo, marketing, musei e gallerie, design e moda. Dal 2008 ad oggi tutto questo ha generato 77 miliardi di valore aggiunto, quasi 2 milioni di posti di lavoro».
Questo vuol dire che quando si chiede a Rai e Mediaset di produrre di più con le risorse interne si va nella direzione sbagliata? «Io penso di si. Tutti i grandi broadcaster stanno andando nella direzione opposta. Giusto per citare l’ultimo esempio, la settimana scorsa Itv ha comprato Talpa per 500 milioni di euro: anziché incrementare la produzione interna ha preferito investire su un produttore indipendente cui affidare lo sviluppo di nuovi prodotti. Bisogna dunque che anche Rai e Mediaset ripensino la loro organizzazione. Anche tenendo conto di quello che accade sul mercato della pubblicità».
Cioè? «La pubblicità non garantirà più flussi costanti e prevedibili di investimenti e di questo dovranno tener conto Rai e Mediaset nel calcolare le dimensioni delle loro strutture interne. Da questo punto di vista l’outsourcing non è solo un modo più efficiente di produrre ma è una necessità. Un problema che sente meno la pay tv, che ha un modello di business meno dipendente dalla pubblicità, ma per la tv in chiaro è strategico. C’è però un altro nodo: le concessionarie di pubblicità. Sono loro la componente che soffrirà sempre di più della disintermediazione di Internet. E immagino che anche in Italia si sentirà presto la necessità di un consolidamento. La tv free invece vivrà e a lungo, ma concentrandosi sugli eventi, sui contenuti con una forte storytelling e soprattutto in grado di produrre una coda lunga».
Quali? «Per esempio L’isola, Amici, X Factor: brand che creano affezione e riconoscibilità tra il pubblico e permettono di segmentare il mercato. Si vede la diretta live in tv, poi si va sul sito per dialogare con i protagonisti, per seguire il giorno per giorno. E gli investitori pubblicitari possono articolare la loro presenza su più fronti, su terminali diversi e in momenti diversi. La tv generalista da sola non è in grado di controllare in questo modo l’intera catena del valore. Dall’altro lato ci saranno prodotti non legati alla diretta settimanale. Oggi negli Usa i cosiddetti “ascolti” non sono più quelli del giorno dopo ma quelli che vengono cumulati nell’arco anche di una settimana con dvr, podcast, catch up ossia tutto l’ascolto differito».
E’ la fine della tv generalista? «No ma una riforma del sistema audiovisivo non potrà non tenere conto che oggi il valore si crea molto di più sui contenuti che su modelli distributivi. Non a caso Murdoch ha comprato Endemol, che oggi fattura 2,4 miliardi ed è leader mondiale incontrastato nel suo settore, ha fatto un’offerta per Time Warner (contenuti) e si vocifera che voglia vendere Sky Europe (distribuzione). Discorso più complesso per Rai, che non dovrebbe essere percepita come un’azienda ma come un servizio pubblico, ovvero al servizio dell’industria creativa e culturale. Va liberata dai recinti burocratici e corporativi dove è stata finora confinata. Valorizzando così tutti quei professionisti di grande talento di cui è piena». Affermazione tipica da candidato alla direzione generale Rai: allora è vero? «Ma no, lo penso veramente. Tanto più che non sono candidato a nulla. L’ho letto anch’io di quella voce, ma non c’è nulla, non è vera. E non ho voglia di cambiare lavoro».