Dopo una prima stagione che ha fatto impazzire l’America, Kendall Jenner compresa, è tornata Cheer, la serie Netflix che smonta qualunque pregiudizio sul cheerleading
Prendete e cestinate l’immagine che avete delle cheerleader che decenni di telefilm americani ci hanno propinato. Via i pon pon, via gli stivali con il tacco, via l’assioma che le vuole semplicemente orpelli urlanti piazzati a bordo campo per scambiarsi sguardi languidi con i giocatori di football. Ma soprattutto via due cose fondamentali, e cioè l’idea che siano solo le ragazze a farlo (forse qualcuno di voi già lo sapeva, ma la conoscenza che in Italia abbiamo del cheerleading è pari a quella degli americani su una sana alimentazione, ndr) e che sia tutto sommato poco più che una forma di ballo con qualche salto in più. C’era bisogno di un documentario, per altro vincitore di un Emmy, come Cheer di Netflix, oggi alla sua seconda stagione, per rendersi conto che quella cosa lì, che c’è stata da sempre venduta come il passatempo vanesio delle tipe più popolari del liceo, sia in realtà uno sport massacrante, pericolosissimo e in grado di far fare ai suoi atleti cose che sfidano qualunque legge della gravità. “Guarda di cosa è capace il corpo umano!” inizierai a pensare (in modo molto simile a quello con cui ci si trova ad ammirare le ginnaste olimpioniche), mentre 40 studenti sollevano altri esseri umani tenendoli in equilibrio su un solo braccio, formano piramidi, si lanciano e si afferrano a mezz’aria, e generalmente disapplicano tutte le leggi della fisica conosciute. Il tutto mentre nelle pause rimani basito nel vederli nutrirsi di schifezze e bere solo bibite, mai e dico mai un goccio d’acqua (che sofferenza non poter piombare lì a urlargli che no, ragazzi, non ci si idrata con la Pepsi, e le vitamine non le trovi nella Fanta).
Ma non c’è solo il livello alieno di bravura e tecnica dei suoi protagonisti, in Cheer: c’è una parabola squisitamente americana di riscatti da vite miserabili, c’è la dedizione oltre ogni limite di personaggi che da soli potrebbero reggere un intero altro documentario, per quanto sono assurdi, estremi, strazianti, implacabili. A partire dalla coach del Navarro College in Corsicana, Texas, Monica Aldama, un’ex cheerleader, diventata allenatrice di una squadra che ai tempi in cui l’ha presa in mano lei non valeva una cicca. A modellare, addestrare, rimproverare, fare da madre e sorvegliarli tutti è, dunque, lei, stacanovista come nemmeno un broker di Wall Street, amata, temuta e rispettata da ogni studente, una che sorride solo quando c’è qualcosa per cui sorridere e che passa le notti a vedere e rivedere “la routine” per renderla, come poi sarà, imbattibile nella competizione più importante per la disciplina, ovvero Daytona Beach. Capelli con extension malfatte, mèches, french alle unghie, mascara a lunga tenuta, accento texano, indole, come dice lei stessa “conservatrice e religiosa”, salvo poi avere nel suo team numerosi ragazzi gay che non rappresentano neppure l’ombra di un problema (e che, anzi, difende a spada tratta dai discorsi del suo pastore), Monica regola il programma con ritmi da marines, intervallati da guizzi di calore materno. Le sue cheerleader la idolatrano e parlano alle telecamere del regista Greg Whiteley di come lei abbia cambiato le loro vite. Tra loro Morgan, una ragazza tranquilla e desiderosa di compiacere tutti, abbandonata dai suoi genitori e vissuta per lo più da sola in una roulotte, guarda ad Aldama come all’unico adulto a cui sia importato qualcosa di lei. La tumbler (si potrebbe tradurre come “acrobata” ed è uno dei ruoli principali per le femmine cheerleader) Lexi, una delle più forti d’America, è una svapata raver con lunghi capelli platino, un affetto da stoner e una storia di violenza: era un’adolescente in fuga, che tendeva all’auto sabotaggio estremo, ma col talento da cheerleader è riuscita a non perdersi. E poi La’Darius, che ha pure subìto l’abbandono dei genitori, gli abusi sessuali nella famiglia affidataria e le violenze dei suoi fratelli che, inorriditi dalla sua omosessualità, hanno cercato di “trasformarlo in un uomo”. È sopravvissuto a un tentativo di suicidio e ora si muove con una forza e un’energia devastante nel team Navarro.
Una ragazza si tuffa a testa in giù, raggiante, in una culla di braccia tese, poi si getta di nuovo in piedi in una perfetta immobilità sulle spalle di una ragazza che è in piedi sulle spalle della cheerleader. Un’altra ancora salta in un cesto – la base creata quando due cheerleader si chiudono mani e polsi in un quadrato – e si libra per sei metri verso il soffitto, quindi fa un piegamento all’indietro, esegue due torsioni complete e cade agevolmente come una palla da baseball che incontra un guanto. In altri punti della serie, le cheerleader indossano i microfoni mentre fanno le loro acrobazie e puoi sentire come suona (qualcosa come una rissa da bar senza le grida) quando i corpi vengono lanciati e catturati senza alcuna protezione a parte un senso della fisica e della geometria. Fanno tutto, senza nessuna imbottitura tranne il muscolo che ricopre l’osso. Al rallentatore e con la musica, queste imprese sono così improbabili che può sembrare che tu stia guardando il filmato al contrario.
C’è un pathos, e uno strano tipo di magia, nella cheerleading competitiva d’élite che ha qualcosa a che fare con la sua “insularità”. Gabi Butler, per esempio, che è una delle protagoniste di Cheer e una delle prime star dei social media, aveva ai tempi delle riprese più di ottocentomila follower, eppure la sua specialità era ancora considerata roba da sempliciotte poco acculturate, dai look appariscenti (verissimo) e poco spessore (falsissimo). Oggi, dopo che la serie è diventata un successo planetario, adorata da celebrity come Kendall Jenner e Oprah Winfrey, gli atleti sono inseguiti da brand, trasmissioni tv, magazine, e devono gestire la durezza degli allenamenti con qualunque forma di business legato alla popolarità che gli sta piovendo addosso. Navarro, al netto di quanto sia appassionante seguire le vicende personali dei ragazzi, ha vinto quattordici degli ultimi venti campionati nazionali; i suoi membri competono principalmente l’uno contro l’altro, in lizza per un posto a Daytona dove si scontreranno con il loro vero rivale, la squadra del Trinity Valley Community College, che nella seconda stagione appena partita su Netflix diventa anch’essa protagonista delle serie (roba da leccarsi i baffi, insomma, perché anche lì i protagonisti sono pazzeschi). Mentre li guardi farsi il tifo a vicenda, inizi a vedere il team come un tutt’uno di sforzi e incoraggiamenti: nessuno sosterrà mai questa squadra tanto quanto questa squadra sostiene (e al contempo combatte) se stessa
Le dinamiche razziali e di genere della squadra sono affascinanti, soprattutto nel contesto della Corsicana conservatrice, dove nelle ultime elezioni presidenziali, Donald Trump ha vinto con circa il settantatré per cento dei voti nella contea di Navarro. Ad un certo punto, su questo, della serie, vediamo un’insegnante alla Navarro dire felicemente ai suoi studenti che l’identità politica texana si basa sul matrimonio tradizionale e il diritto di portare armi. Aldama, dicevamo, è sì una cristiana conservatrice, ma si posiziona come un feroce difensore dei cheerleader maschi gay della sua squadra, e di fatti le routine sono coreografate per permettere ai ragazzi queer di pavoneggiarsi. E se per questa libertà e comunione con i compagni di squadra il prezzo pagato in fratture dell’attaccatura dei capelli, articolazioni lussate e lividi dei tessuti profondi sembra troppo alto per noi civili, beh, ecco perché noi rimaniamo distesi morbidamente sui nostri divani mentre osserviamo gli altri volare.
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