IL RAP MILITANTE DI KENTO TRA SALVINI E MAFIA CAPITALE: “PER GLI ARTISTI HIP HOP È ORA DI PRENDERE POSIZIONE”

IL RAP MILITANTE DI KENTO TRA SALVINI E MAFIA CAPITALE: “PER GLI ARTISTI HIP HOP È ORA DI PRENDERE POSIZIONE”

Nel nuovo disco, “Da Sud”, il rapper calabrese racconta anche la storia di Totò Speranza, ucciso dalla ’ndrangheta

kento2Dopo Radici, disco in cui Kento unisce il rap al blues, c’era il rischio di cadere nel già sentito. Invece, nel nuovo album Da Sud – coprodotto dall’Associazione Antimafia daSud – il rapper calabrese riesce a imboccare una strada nuova (senza mettere da parte il blues) con incursioni di scratch, chitarre distorte e beat decisi. Tra le collaborazioni spiccano quelle con Murubutu e Masta P., mentre dalla serie tv Gomorra arriva l’attore Gianni Spezzano. E non è tutto. Il progetto musicale esce in contemporanea con il primo libro di Kento, Resistenza Rap, pubblicato da Round Robin Editrice: una serie di racconti di viaggio e consigli per chi si avvicina alla cultura hip hop.
Dici se“voti per Salvini non venire ai miei concerti”: di rapper militanti schierati come te non se ne vedono molti in questo momento in Italia…
«Per me è obbligatorio dire certe cose, proprio perché vengono dette troppo poco. Voglio dare messaggi precisi e rischiare addirittura di essere didascalico quando la parola dei rapper è vuota, indefinita, nebulosa, specialmente considerando che spesso il “non dire” è frutto di una calcolata strategia di mercato per non scontentare nessuno. Ecco: volevo che questo messaggio arrivasse forte e netto, e il fatto che sia la prima domanda della tua intervista mi conferma che la missione è compiuta. Mi piacerebbe che i tanti rapper che pensano la stessa cosa cominciassero a dirlo, a schierarsi: se sei un razzista non voglio i tuoi soldi e nemmeno la tua visualizzazione su YouTube. Oppure, se la pensano in un modo diverso, che avessero comunque il coraggio di esporsi».
Dopo Radici, un disco unico proprio per l’uso del blues, c’era il rischio di riproporre un po’ la stessa cosa. Come sei riuscito a trovare questa nuova strada in cui hai fatto anche degli extrabeat?
«In due anni l’hip hop è cambiato e sono cambiato anch’io. Non tutta la roba nuova che esce fa schifo, anzi! Mi sono reso conto che, ad esempio, molte delle dinamiche di batteria dei dischi che ho sentito più spesso ultimamente potevano sposarsi benissimo con il nostro rap-blues. Ho cercato di evolvere la mia scrittura di conseguenza, appunto con l’extrabeat, con la rima alternata e con qualche altra novità che mi serve a rendere più vario e moderno l’ascolto, anche perché diciamo che le tematiche non sono propriamente leggere!. E, a dire il vero, mi sono anche divertito un sacco a scrivere così».
In H.I.P H.O.P dici “questa scena è solo scena”. Che cosa pensi della nuova ondata trap che va di moda adesso?
«Il problema non è la trap, il problema è la superficialità. Di per sé, il fatto che l’hip hop si rinnovi – anche attraverso questi sottogeneri che durano generalmente poco – è molto positivo, significa che è un genere vitale, pronto a parlare a diverse generazioni, così come ha fatto il rock and roll negli ultimi 60 anni. Anzi, ti dirò di più: un mc forte su una base trap può farsi valere alla grande, perché quel genere di beat si presta ai cambiamenti di flow come pochi altri. Il legame fra trap e “rapper che dicono cose stupide” non è scontato: gli stupidi sarebbero stupidi anche se li mettessi sulle basi di Dj Premier… ».
Nel pezzo Piazzale Loreto manifesti il tuo antifascismo collegandolo a fatti di attualità come Mafia Capitale, sei pessimista riguardo al futuro?
«Sono ottimista di quello che Gramsci chiamava “l’ottimismo della volontà”. Se ci rimbocchiamo le maniche e ci rendiamo conto che il capitalismo non è l’unico modello sociale possibile, allora qualcosa può cambiare sul serio. Con Piazzale Loreto ho provato a parlare di antifascismo in maniera contemporanea, raccontando cioè alcuni dei tanti aspetti per i quali questo tipo di lotta non è soltanto folklore o voler guardare indietro al passato. Il fascismo del terzo millennio ha anche un lato subdolo, che nasconde la camicia nera sotto il completo elegante, che sa fare affari con la politica e la finanza, che cerca di intercettare le contro-culture giovanili per distorcerle a proprio uso e consumo. Ci dobbiamo opporre a questo tipo di fascismo tanto quanto a quello dei picchiatori e delle svastiche».
Quanto è importante per te la funzione didattica che può avere il rap? So che fai anche laboratori nelle scuole…
«Il rap nasce in strada e nessuna scuola o laboratorio può sostituire l’esperienza di fare freestyle negli angoli dei vicoli o fuori ai locali. Ciò detto, penso che sia utile parlare di rap e fare rap anche a scuola, nei centri di aggregazione giovanile e nelle carceri minorili. Quest’ultima in particolare è un’esperienza che ogni volta mi insegna ben più di quanto insegni io ai ragazzi che si trovano dietro le sbarre. Attraverso il linguaggio dell’hip hop si possono capire e imparare molte cose: la metrica, l’italiano, il concetto del ritmo, ma anche il rispetto e l’autostima. Nella Striscia di Gaza, c’è chi lo usa come strumento per trattare il disordine da stress post traumatico nei ragazzi che sono stati esposti ai bombardamenti. Quindi sicuramente continuerò a fare dei laboratori per i ragazzi di tutte le età e a metterci tutto il mio cuore e il mio impegno. Quest’anno avrò una dedica speciale da fare, quella al mio caro amico Willie DBZ che se n’è andato qualche giorno fa, e che era – ed è ancora – un punto di riferimento nella trasmissione dei valori dell’hip hop alla prossima generazione».
Come è nata l’idea del brano Totò Speranza?
«Totò Speranza è stata scritta insieme all’Associazione daSud, che ha coprodotto il disco. E’ la storia vera di un bassista reggae che fu ucciso dalla ’ndrangheta per un debituccio di qualche grammo d’erba ed, essendo la storia di un ragazzo delle mie parti, mi ha colpito in maniera molto forte perché sarebbe potuto succedere a molti di noi negli stessi anni (era il 1997). Ci tengo comunque a dire che non è una canzone triste, disperata, ma un invito alla lotta e alla resistenza, così come penso che avrebbe voluto Totò. La prima persona a sentirla è stata la sorella, e la sua approvazione ha significato moltissimo per me. Magari ci faremo anche un video…».
Hai pubblicato anche un libro Resistenza Rap, in cui racconti dei tuoi viaggi. Qual è il viaggio che ti ha segnato di più?
«Evito le risposte di circostanza e te ne do una secca e precisa: la Palestina. Settembre 2014, Hip-Hop Smash The Wall: un progetto di collaborazione con gli artisti della Cisgiordania e di Gaza per supportare la scena di quelle parti e per cominciare a far parlare della situazione di questi nostri fratelli anche i rapper italiani e il pubblico che li segue. Nel libro ne parlo molto a lungo: sicuramente la Palestina è uno di quei luoghi che ti segnano. Hip-Hop Smash The Wall è un progetto che continua ancora e, se tutto va bene, ci saranno presto delle altre novità».
Nel brano Il Debito c’è la partecipazione di Gianni Spezzano
«Gianni mi è stato presentato dall’Associazione daSud, e sono stato subito entusiasta di questa collaborazione. Si tratta di un giovane e fortissimo attore napoletano che si è fatto notare in Gomorra, ma che affronta anche lui la battaglia dei tanti ragazzi che lottano con un futuro precario e incerto, specialmente per chi vuole lavorare nell’ambito dell’arte. Per prenderlo in giro, gli dico che la collaborazione con me gli ha portato fortuna, visto che – contrariamente alle aspettative di tanti – è sopravvissuto alle tante sparatorie della seconda stagione. Adesso vedremo se fare un altro pezzo insieme… così gli faccio superare anche la terza!».
Nel disco si parla anche delle generazioni che hanno lasciato il Sud, di chi è partito e di chi è tornato. Oggi i ragazzi fuggono dall’Italia per andare all’estero. Secondo te dovrebbero stare qui a “lottare”?
«Non giudico chi se ne va, anche perché non avrei titolo visto che l’ho fatto anch’io, e addirittura sono emigrate (con motivazioni e difficoltà ben diverse) tutte le generazioni della mia famiglia prima di me. Partire a volte è indispensabile, l’importante è tornare: fisicamente, quando è possibile, ma soprattutto non recidere il legame, e con la coscienza fare qualcosa per chi rimane e per le radici che, volenti o nolenti, ci portiamo dietro».

di Alice Castagneri, La Stampa

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