L’attrice francese protagonista di «Elle». «È una storia meravigliosa, provocatoria e disturbante»
Lezione di cinema di Isabelle Huppert all’hotel Intercontinental di Parigi durante un incontro organizzato da Unifrance. La recente vincitrice del Golden Globe per Elle di Paul Verhoeven mostra qualcuno dei motivi per i quali è forse l’attrice francese più amata nel mondo oggi.
Intanto, colpisce la somiglianza con i personaggi che interpreta sullo schermo. Gentile ma totalmente priva di smancerie, molto seria anche se felice di sorridere, Isabelle Huppert ricorda quelle eroine «che definirei delle sopravvissute. Personaggi oltre la fragilità, oltre la sofferenza, oltre la compassione. Eppure si possono sentire tutte queste cose in sottofondo. Mi sembra di interpretare persone che sono tutte passate attraverso qualcosa, non sono semplicemente esseri umani che agiscono a sangue freddo».
In Elle (che uscirà in Italia il 23 marzo) Huppert è Michèle, che nella prima scena viene violentata da un uomo mascherato entrato di forza in casa sua. Per il resto del film la protagonista non sarà né vittima, né vendicatrice. «Michèle non agisce mai in modo prevedibile, è l’inconscio a spingerla. Appena ho letto il libro ho pensato che era una storia meravigliosa. Complessa, impegnativa, provocatoria, disturbante». Termini che definiscono bene l’universo cinematografico creato da Isabelle Huppert.
«Non c’entra il coraggio», dice. «L’importante è lavorare con registi nei quali potere riporre fiducia completa. Paul Verhoeven in questo è abbastanza simile a Michael Haneke (il regista de La pianista e Amour, ndr): entrambi ti fanno recitare senza soffocarti, lasciano che le cose previste dal copione prendano forma, non si perdono in spiegazioni psicologiche. “Fammi vedere i fatti”, sembrano dire, ed è l’atteggiamento giusto. Non interferiscono mai con la tua performance. Non è che il giorno prima di una scena ci si metta lì e il regista ti dica dovresti fare più così o cosà, questo genere di cose non esistono con registi simili. La storia va avanti per informazioni, non per spiegazioni». Ci si avvicina alla definizione del regista ideale, e quindi anche all’idea di cinema di Isabelle Huppert. «Il regista perfetto è in sintonia con me, ha un’intuizione di me e non ha idee prefissate. Crede nella forza del cinema, che si gioca nel presente. Puoi anche scrivere tutto nel copione, e Paul Verhoeven lo fa, ma poi lui sa che quando le cose succedono, cioè nello spazio tra “azione” e “cut”, c’è una specie di legge suprema del cinema alla quale devi inchinarti, che non puoi controllare».
Isabelle Huppert dice di avere adorato collaborare con i registi italiani (Mauro Bolognini, Marco Ferreri, i fratelli Taviani, Alessandro Capone e Marco Bellocchio), «in Italia c’è un modo di lavorare molto “arty”, con una grande attenzione per cose come la scenografia, la bellezza delle luci… ci sono cose che gli italiani sanno fare molto bene». Sarà nei cinema italiani in primavera anche con L’avenir di Mia Hansen-Løve nel quale è Nathalie, una professoressa di filosofia che deve re-imparare a vivere il giorno in cui viene lasciata dal marito.
Al prossimo Festival di Cannes verrà presentato Happy End, il nuovo film di Haneke «non sui migranti ma su una famiglia del Nord della Francia che cerca di chiudere gli occhi su quel problema, e non ci riesce».
di Stefano MonteFiori, Il Corriere della sera