(Massimiliano Lenzi, decease Il Tempo) Il finale del suo post su Facebook, «ieri ho passato la giornata in Rai, a Roma ci sono così tante cose da fare», a commento della puntata di Bruno Vespa a «Porta a porta» sui…
Tre punti di partenza su cosa e come cambiare il servizio pubblico?
«La Rai è una grande azienda, ha i suoi anni, nei suoi archivi si percorre per intera la storia di questo Paese: dalle alluvioni alle vergogne, da “Cime Tempestose” a “Don Matteo”. È prima, viene prima, ma flette. Soffre. La riforma la ridefinisce, la riposiziona, la cura, la valorizza. Meno influenza politica, più sfida, più impresa, più competizione».
Da noi si cita sempre la Bbc: non sarebbe il caso di cercare una via italiana?
«Sì, ma lo faremo. Ho ascoltato attentamente il Direttore Generale e la Presidente Monica Maggioni e ho sentito bene: no, non siamo la Bbc. Siamo la più grande televisione pubblica d’Europa. Mi è piaciuto Renzo Arbore – ma piace a molti – che dice che noi potremmo esportare. A Oriente ma anche a Occidente. Più che uno scatolone in cui mettere mi piace supporre una grande galassia da cui partono avventure in grado di farci conoscere di più, di farci apprezzare, di farci assaggiare, di farci leggere. Insomma chissà che non si possa smettere di guardarci in cagnesco credendo che il mondo poi sia tutto lì in quei pochi punti di share».
La tv pubblica deve essere pedagogica?
«Ma abbiamo tutti molto bisogno di sentirci prossimi. Di saperci dipendenti gli uni dagli altri. Si dice connessi, ma significa che il destino è un destino comune. Serve aiutarci. Parlare la nostra lingua, difenderla anche. Disporla a chi ne ha più bisogno. E con lei la nostra storia, le ragioni della bellezza diffusa che incontriamo un po’ ovunque. La televisione pubblica potrebbe aiutare molto, penso che sia un obiettivo che ci porremo. Lo dobbiamo affrontare senza ideologismi. Potremmo scoprire I terreni comuni per soddisfare bisogni comuni. Lì sta la buona pedagogia».
Se dovrà far pedagogia come si farà a tener distinto il potere politico dalle direttive alla tv? La tv di Fanfani e Bernabei era pedagogica ma anche democristiana…
«Io ho un’età che mi consente di parlare della tv di Fanfani per esperienza diretta. Non era male. Era Democristiana ma non era male. Lo dico a partire dal fatto che la sera la guardavamo. Si rispondeva ai quiz, si guardavano gli sceneggiati, si stava in casa. Quell’Italia non c’è più. Quei partiti non ci sono più. Né l’uno né l’altro. L’abitudine consociativa è dura a morire ma è in crisi. La riforma della Rai pone il problema sul terreno di una sfida moderna, più ardua. Era un monopolio, ora è di tutto un po’».
La Rai deve temere Netflix?
«Netflix lo stiamo aspettando. Una piattaforma, una modalità, costa poco e offre molto. Ma perché temerlo. Sarebbe come temere l’ultima versione di iPad. Ci siamo fino al collo nel tempo che viene e per tenere botta dobbiamo avere un temperamento, tanto temperamento. Non temere ma esplorare. Proporre. Rendere ricca e comoda la nostra offerta. Facili da incontrare».
Massimiliano Lenzi