«Spesso fa più male la paura di morire che la morte». E della vita dice: «Molti studiano per allungarla, mentre bisognerebbe allargarla»; poi, l’amore e la condivisione: «Siamo angeli con un’ala soltanto. Possiamo volare solo restando abbracciati»; quindi, la difficile arte del dubitare: «Forse l’unica maniera di procedere che spinge alla conoscenza». Ingegnere elettronico diventato, per naturale palingenesi, scrittore, sceneggiatore, umorista, attore, regista, divulgatore, filosofo; «uomo d’amore» in antitesi agli «uomini di liberà»; «sacerdote del dubbio» contro più e meno arroganti padroni di certezze; «paladino di Napoli nobilissima» a dispetto dei suoi mali eterni, sabato prossimo 18 agosto Luciano De Crescenzo compirà 90 anni. Il documento d’identità ha la data del giorno 20, ma soltanto perché il papà, guantaio di San Ferdinando, lo registrò in ritardo.
La figlia Paola, il nipote Michelangelo, gli amici di sempre Arbore, la Laurito, il sociologo De Masi, la Wertmuller e pochi altri gli stanno organizzando una festa casalinga con torta gelata preparata da un antico pasticcere salernitano: «Con questo caldo, lo stiamo facendo uscire poco», racconta il suo agente letterario Enzo D’Elia. «Abbiamo invitato anche Carlo Missaglia, che gli canterà qualche canzone della sua Napoli». Ma nella bella casa romana ai Fori Imperiali, Luciano sta bene. Perché scrive. Ogni mattina si sistema davanti al suo vecchio computer IBM e lavora. Due mesi fa è uscita la sua biografia, ai primi posti in classifica, e non solo in Italia. S’intitola Sono stato fortunato, ed è edito da Mondadori. Con 42 libri e oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo, De Crescenzo è uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei. Ma non solo.
Lei è anche filosofo: un filosofo napoletano. In questa veste, alla soglia dei 90 anni, che cosa ha compreso di se stesso e dell’essere umano?
«Innanzitutto serve una precisazione: io non sono un filosofo; al più mi definirei un simpatizzante. Detto questo, c’è una cosa che ho capito e che riguarda me stesso e gli altri: ognuno di noi ha la possibilità di reinventarsi. Certo, ci vuole un pizzico di fortuna, ma se a un tratto ci rendiamo conto di non essere felici, dobbiamo fare di tutto per concedere a noi stessi una seconda possibilità».
Pensa di aver realizzato tutti i suoi sogni o se n’è perso qualcuno per strada?
«Forse proprio tutti no, ma non mi posso lamentare».
Tra tutte le sue opere, quale la rappresenta di più; in quale ritrova più se stesso?
«Non so se mi rappresenta di più però, senza far torto agli altri libri che ho scritto, Il dubbio è il mio preferito. È un libricino nel quale mi pongo quattro grandi domande: Esiste Dio? Esiste il Destino? Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio?. Ecco, in nemmeno cento pagine provo a trovare una risposta ai più discussi interrogativi della vita».
Di Napoli, dei suoi «peccati», ha scritto e parlato sempre con sguardo affettuoso, ironico, indulgente. Che cosa pensa di chi, invece, ha denunciato quei peccati con un pessimismo senza speranze? Che cosa dice, per esempio, del fenomeno «Gomorra»?
«Io Gomorra non l’ho mai visto, ma non per partito preso; semplicemente perché guardo poco la televisione. Credo sia importante denunciare certi peccati, senza però perdere di vista quel che c’è di positivo. Quando scrissi Così parlò Bellavista, chiusi il libro con questa frase: Ciononostante, in questo mondo del progresso, in questo mondo pieno di missili e di bombe atomiche, io penso che Napoli sia ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere. Mi sembrava un buon auspicio, un messaggio di speranza. Dall’uscita del libro sono passati 30 anni e tante cose non sono cambiate. Penso alla camorra, ai rifiuti, al traffico Negli ultimi tempi però, mi sembra che Napoli abbia riconquistato un po’ di quel sano folklore che l’ha resa famosa nel mondo».
Con l’amico di sempre, Renzo Arbore, ne ha combinate di tutti i colori. C’è una «marachella» più divertente o impertinente che ricorda?
«Sceglierne una sarebbe impossibile. Ripenso ai tempi di Quelli della notte, o di FF.SS. – Cioè: … che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?; per non parlare delle vacanze a Capri. Ogni occasione era buona per fare scherzi».
Questi 90 anni pesano?
«Più che gli anni pesano gli acciacchi».
Un’ultima curiosità: che cosa la spinse, tanti anni fa, a rinunciare a una promettente carriera di dirigente alla IBM per ciò che rischiava di essere un salto nel vuoto?
«La verità è che mi annoiavo. Ero circondato da bravissime persone, sia chiaro, ma ai miei occhi sembravano tutte uguali, identiche nei gusti e nei comportamenti. Spinto dal desiderio di novità, decisi di lasciare il lavoro e dedicarmi completamente alla scrittura. Se vogliamo chiamarlo un salto nel vuoto, oggi, col senno di poi, posso affermare che non avrei potuto scegliere vuoto migliore».
Luciano Giannini, Ilmattino.it