Il mio primo articolo? Nel 1964, a quindici anni, in quarta ginnasio, sul Giornale Letterario dell’editore Mario Gastaldi, a proposito della poetica di Corrado Alvaro. Un anno dopo, sul Parini Press, contraltare cattolico alla celeberrima rivoluzionaria Zanzara: Marco Sassano, Claudia Beltramo Ceppi e Marco De Poli facevano tremare l’Italia con l’inchiesta sul sesso degli studenti ma il direttore del rassicurante Parini Press, un non ancora celebre Francesco Cavalli Sforza, mi faceva scrivere della tribuna stampa dello stadio di San Siro. Edoardo Raspelli la frequentava con la tessera omaggio ‘Distinti Stampa’ di suo padre, collaboratore annoso del quotidiano di Piacenza, La Libertà: seguivo le partite del Milan, mi infilavo negli spogliatoi, intervistavo Gianni Rivera e José Altafini e poi, in tram, buttavo giù un articolo, tutto per me. Ma non c’era solo lo sport: mio padre era un grande uomo inappetente, io no, io ero un grande ma non inappetente. Nei primi anni Sessanta, gli anni del boom economico, mostre d’arte ed eventi vari finivano sempre con pantagruelici buffet ed io mi ci fiondavo. Alla galleria fotografica milanese Il Diaframma, le foto di Gianni Berengo Gardin e di Fedele Toscani (il papà di Oliviero) erano affiancate a monumentali cascate di fette di prosciutto crudo di Parma o San Daniele e a gallerie scavate nelle forme di Parmigiano Reggiano o Grana Padano; in via Cerva, il ristorante Barbarossa veniva inaugurato in ventiquattro ore: alla mattina cornetti e cappuccini, alle 11 Crodini e Champagne, alle 12.30 tutti a tavola; alle 17 tè e pasticcini, alle 19 aperitivo, alle 21 cena, all’1 di notte liquorini. Dovevo fare il giornalista! Non per fame ma per gola. Il 23 settembre del 1969 Mario Robertazzi pubblica nella sua pagina Tempo dei Giovani sul Corriere della Sera diretto da un giovanissimo bolognese, Giovanni Spadolini, il mio primo articolo sul centro tecnico federale di tennis di Pievepélago (Modena) dove avevo imparato assieme ad Adriano Panatta. Il primo pezzo fu gratis; il secondo, sulle classi di neve dell’università Cattolica, me lo pagarono 30.000 lire (700-800 euro di oggi) che spesi più o meno tutte pranzando lucullianamente nei ristoranti allora più alla moda: Gigi il Cacciatore, la Torre del Mangia, Alfio…
Il 26 luglio del 1971, in giacca e cravatta, Spadolini mi assume per la cronaca dell’edizione del pomeriggio del Corrierone, il Corriere d’Informazione. Entro alle 7 del mattino. Dopo mezz’ora vengo scaravoltolato all’Università Cattolica dove, a Scienze Politiche, preside Gianfranco Miglio, in un gabinetto, viene trovata assassinata a coltellate una neo laureata, Simonetta Ferrero. Sono testimone e raccontatore, nel mio piccolo, dei terribili anni di piombo, con le sue stragi, i suoi rapimenti, i suoi delitti. Accanto a me, al secondo piano di via Solferino 28, Walter Tobagi, Vittorio Feltri, Ferruccio De Bortoli, Gian Antonio Stella, Massimo Donelli, Gianni Mura, Paolo Mereghetti. È il 17 maggio 1972: sono il primo giornalista ad arrivare in via Cherubini davanti alla pozza di sangue del commissario Luigi Calabresi ammazzato dalle Brigate Rosse, e poi l’agente Antonio Marino, Sergio Ramelli, Giannino Zibecchi, Alberto Brasili, il poliziotto Sergio Bazzega con il giudice Emilio Alessandrini: neri, rossi, polizia, carabinieri, giornalisti, magistrati, studenti… Si passavano le giornate tra i pronti soccorso e l’obitorio, tra un delitto ed un sequestro di persona. Esorcizzavamo le paure, le angosce e le tristezze con soste a tavola in nota spese: il Portone di Melegnano o I Cacciatori di Pezzolo di Tavazzano, tra paste fatte in casa e carni alla griglia, erano la meta dei cronisti dopo i rapimenti del sud Milano; le leccornie eleganti e fantasiose del Riservino di Besana Brianza o Pierino a Viganò quando l’omicidio riguardava il nord della Capitale Morale. Vertici gastronomici a parte, negli altri ristoranti, a Brera o in via Veneto, imperversavano panna piselli prosciutto e vodka. Nei ristoranti italiani, negli anni Settanta, si mangiava da cane. Ma non si poteva criticare. Benito Broggiato (il papà di Anna, direttrice di Studio Aperto) rispettava le regole della Guida Michelin che dirigeva: non si pubblicavano i nomi dei ristoranti bocciati, quelli che perdevano la stella. Io ero cronista anche in quello: ci mettevo un giorno, sfogliavo pagina per pagina due edizioni successive e davo una notizia completa.
Fu allora, settembre 1975, che Cesare Lanza, oggi editorialista de La Verità, mi fece chiamare da cronista e capo cronista, Franco Damerini e Mario Perazzi: «Raspelli, c’è un padùlo». Mi spiegarono che è un uccello che vola nel… «Il direttore vuol farti fare la pagina dei ristoranti». Cesare Lanza mi disse: «Vai nei ristoranti, mangi, paghi, che poi ti rimborsiamo noi, ma voglio anche che tu stronchi i ristoranti cattivi…». Non ce n’eravamo accorti ma grazie all’ordine di Cesare Lanza avrei inventato la critica gastronomica nel nostro Paese.
Edoardo Raspelli, Il Resto del Carlino