Il cantautore scenderà per sempre dal palco dopo il Carpi Summer Fest.
«Non ho paura di commuovermi. Basta anche con i miei racconti in pubblico»
«Penso proprio che sarà l’ultima volta su un palco». Francesco Guccini annuncia il secondo ritiro dalle scene. Il primo era arrivato nel 2013 con la pubblicazione di L’ultima Thule: basta concerti e basta dischi. Da allora è rimasto fedele alla promessa. Un solo tradimento per il concerto post terremoto in Emilia. Sul palco ci è tornato tante volte, ma solo per parlare, per raccontare la sua vita lasciando poi la scena ai Musici, band che lo ha accompagnato per anni. E così accadrà il 26 giugno al Carpi Summer Fest: una chiacchiera con Massimo Bernardini e poi il concerto degli amici.
Come se la immagina questa «seconda» ultima volta?
«Come le altre: tranquilla, buona, bella».
Teme la lacrima?
«Non ho paura di commuovermi. Forse se cantassi, ma non lo farò. Ho detto da tempo basta. Adesso c’è la voce di Flaco (Juan Carlos Biondini, il chitarrista argentino con lui da 40 anni, ndr)».
Rimpianti?
«No. È una decisione presa con maturità. Per me è stato un grande sollievo. Facevo fatica. La tensione era sempre presente. L’età avanzava e non avevo più la forza di stare in piedi due ore e mezza».
Le manca qualcosa?
«L’incontro con i musicisti e gli amici, le battute e le cene, le barzellette».
Se lo ricorda l’ultimo?
«A Bologna il 3 dicembre 2011. Sono stato poco bene sul palco. Le persone del mio staff pensavano fosse un infarto. Volevano portarmi al pronto soccorso e io ho dirottato tutti al ristorante. Non avevo previsto fosse l’ultimo. Però poi le preoccupazioni e anche il fatto che da tempo fosse scomparso il mio manager mi hanno fatto prendere quella decisione».
Tempo fa ha detto che aveva smesso perché aveva fatto un voto. Può svelarlo?
«Era una battuta. La uso spesso quando non voglio fare qualcosa. Come quella volta che ero con amici a un pranzo all’aperto nell’entroterra modenese. Una signora mi chiese di cantare “Happy birthday” per il nipotino. Mi liberai dicendo che avevo fatto un voto. Lo stesso quando mi offrono qualcosa da mangiare che non mi piace».
L’intervista si interrompe qualche minuto perché il gatto reclama la pappa.
Lei debuttò nel 1967. La prima immagine pubblica è stata la partecipazione a «Diamoci del tu», programma tv condotto da Caterina Caselli che la presentò come «il mio caro amico Francesco». Che ricorda?
«Avevo fatto l’autore per i Nomadi e l’Equipe 84, ma non ero nessuno. Ero emozionatissimo. Caterina, donna oggi raffinatissima, si fece scappare un “lo tengo a battezzo”, retaggio del dialetto modenese».
Un Guccini irriconoscibile. Senza barba…
«Fa impressione anche a me. La barba l’ho fatta crescere nel 1970 per protesta. Non sociale, piuttosto familiare. Non ho mai smesso di portarla».
Funzionava come oggi? Iniziarono a fermarla per strada?
«Non cambiò nulla. Continuò a non riconoscermi nessuno. Fortunatamente ho sempre potuto camminare per strada senza essere disturbato».
Non faccia il modesto..
«Solo negli ultimi anni con i cellulari mi fermano per le foto. E a volte qualcuno arriva fin sotto casa, soprattutto nei fine settimana».
Ha smesso con la musica suonata anche in privato?
«La chitarra è in un angolo della casa e non si sposta dai tempi dell’ultimo disco. Ho provato qualche volta con gli amici ma non ci riesco più. Non ho più i calli sulle dita. Mi fa subito male».
Basta musica, ma Guccini è anche uno scrittore…
«Mi siedo al computer tutti i giorni e scrivo. Ho appena finito un giallo che uscirà in autunno».
Ha ceduto alla tecnologia?
«Continuo a non avere il cellulare. E nemmeno la patente. Sono una specie protetta dal Wwf… Il computer è perfetto per il lento sviluppo della pagina e il taglia e incolla. Mentre la canzone è un flash immediato, una botta. Quelle le ho sempre scritte con carta e penna».
Lo stereotipo del cantautore è «uno sul palco con la chitarra e la bottiglia di vino». Si sente un monumento?
«I cantautori sono stati le voci più interessanti di questi anni. Hanno fatto cose importanti. E anche io, al di là della mitologia, credo di aver fatto cose buone. Un’amica che lavora all’università di Ginevra sta facendo una critica letteraria delle mie canzoni e ogni tanto le dico “ma sei sicura che ho fatto tutte quelle cose che dici?”».
Andrea Laffranchi, il Corriere della Sera