Chiara, voglio conoscerti meglio quindi partiamo dall’inizio: che bambina sei stata?
Sono figlia di un’impiegata delle poste tutta calcoli e controllo, di un impresario edile, falegname e artista e sorella di un ingegnere informatico. La mia infanzia è la (più o meno) perfetta combinazione delle tre cose. Aiutavo mia madre a sistemare bilanci e fare le dichiarazioni dei redditi per i vicini di casa. Impazzivo per il profumo della carta termica che usciva dalle Olivetti, per i timbri e i numeri scritti in quei registri di carta giganti che erano sempre sul tavolo di casa. Giocare all’ufficio, in assoluto la mia passione più grande. Libri di ogni tipo e i primissimi computer che mio fratello montava e smontava già da bambino. Ma allo stesso tempo anche molto creativa e con una grandissima immaginazione: oserei dire che l’80% dei giochi si svolgeva nella mia testa… come oggi del resto!
Il tuo sogno nel cassetto.
Ne ho avuti diversi soprattutto negli ultimi anni, a volte mi ci rifugiavo in momenti in cui ero scarica di stimoli per auto-alimentarli. Arrivo proprio a creare dei veri e propri business plan, ne ho diversi sul computer e a volte li riguardo con tenerezza. Il fatto è che mi sento abbastanza matura da pensare a un progetto mio, ma ho ancora troppa voglia di lasciarmi innamorare da progetti bellissimi degli altri, come mi è successo col il “colpo di fulmine” per Coverflex, per pensare di dedicarmi solo al sogno nel cassetto. Mi piacerebbe molto aprire uno spazio culturale in quella che oggi è il laboratorio di mio padre: “la falegnameria dei libri”: un luogo d’incontro, dove comprare libri, ascoltare concerti dal vivo, fare degustazioni, leggere, incontrare persone, far muovere le idee. Dopo 20 anni un po’ in giro per il mondo, mi piacerebbe costruire qualcosa che abbia un impatto sulla mia comunità locale e vincere il pregiudizio che una cosa del genere possa funzionare solo a Milano, e non in un paese di montagna di 800 abitanti.
Dalla scuola al mondo del lavoro: com’è andata?
Durante l’università ho iniziato a lavorare per caso in un’agenzia immobiliare, un settore che mi ha sempre affascinato, una combinazione tra architettura ed edilizia – tanto che a volte penso che se fossi stata uomo forse avrei portato avanti l’impresa edile di mio padre – dove ho imparato moltissimo sulle vendite, sul project management, sulla burocrazia, sulle trattative e sulla gestione dello stress e su chi avrei voluto essere o non essere da grande. Ma in realtà quando penso al mio primo vero lavoro lo identifico con Groupon, la prima reale esperienza aziendale in una start-up, con un ambiente internazionale, una crescita molto rapida e una cultura del dipendente ai tempi di un altro pianeta: sono partita da molto in basso, ma ho avuto l’opportunità d’imparare velocemente. Ho adorato i tempi del liceo, credo sia l’unica cosa che guardo con un pizzico di nostalgia: la logica, la struttura mentale, il mio carattere e la mia curiosità si sono costruiti sicuramente in quegli anni, anche grazie a un insegnante di storia dell’arte meraviglioso, capace di convincere mia madre a non lasciarmi iscrivere ad architettura. Ammetto di avere un unico incubo ricorrente: l’esame di matematica della maturità.
Così giovane e con un ruolo apicale in Coverflex.
Se penso alla nuova generazione non credo di essere così giovane in effetti, oggi ci sono Direttori Generali che hanno solo 30 anni. È pur vero anche che non ho saltato le tappe, tutt’altro: partita dall’alfabeto, solo dopo diversi anni nel digital, ho iniziato a costruire una carriera in questa direzione. In realtà, ho ricoperto già lo stesso ruolo in due precedenti aziende “unicorno” (cioè start-up che hanno raggiunto una valutazione miliardaria), ossia WeWork e Domestika, ma ammetto che è un’esperienza che cambia completamente al cambiare dell’azienda, quindi non è paragonabile. Sono molto grata ai miei founder per avermi scelta e per riporre in me la loro fiducia, è una sensazione di responsabilità e allo stesso tempo di grandissima gioia e realizzazione.
Una startup portoghese che sta avendo un grosso successo anche in Italia.
Usare il termine start-up per Coverflex in Portogallo è quasi riduttivo, essendo il player numero uno del mercato del welfare, ma questo siamo in effetti. Dal 2021 è stata fatta moltissima strada e la decisione di scegliere l’Italia come secondo mercato in cui aprire è stata ben ponderata. Quando i founder mi hanno presentato il progetto, nonostante io stessa conoscessi ben poco del settore del welfare fino a quel momento, ho capito subito che il potenziale era altissimo. Siamo entrati nel mercato con rispetto e molto studio, abbiamo lavorato sodo, creato un prodotto che prima non esisteva e cambiato alcune dinamiche del settore che fino a poco prima sembrava inimmaginabile poter cambiare e la risposta da parte di clienti ed esercenti ci sta dando ragione.
Essere donna in un settore IT è difficile?
Credo che il concetto di difficoltà sia molto soggettivo per ogni essere umano, quindi nemmeno declinabile per genere o per settore, sebbene a mio avviso non c’è nulla di facile in senso assoluto, ma serve il giusto impegno per ogni cosa, un po’ come in barca: se una manovra ti sta costando troppo fatica o sembra troppo facile, significa che non la stai facendo correttamente. È difficile in genere emergere tra molti, o farsi ascoltare, è impegnativo costruirsi una credibilità, è dispendioso di energia continuare ad andare avanti, evolvere, migliorarsi. Io sono una privilegiata consapevole perché non ho dovuto abbattere muri o superare discriminazioni o differenze, ma credo comunque di lavorare sodo ogni giorno per ottenere dei risultati. Sicuramente come manager è un mio dovere fare in modo che quello che per me è stato un privilegio diventi normalità per tutte le altre donne.
Worklife balance, se ne parla molto.
Nella top tre dei termini che mi creano un po’ di allergia, insieme a resilienza e “disruption”, metto sicuramente anche “Worklife balance”. Si tratta di un concetto che a mio parere si basa su una dicotomia di fondo sbagliata e cioè che l’esistenza di un essere umano si divida in vita e lavoro, come se le due cose fossero due insiemi che non si toccano. E credo anche che questa dicotomia sia la causa di molto malessere. Una specie di bipolarismo indotto nelle persone, come se un individuo che indossa il cappello lavorativo debba essere diverso dal se stesso nel tempo libero. Il lavoro è una parte (sicuramente importante, per me per esempio principale) della vita delle persone, come l’amore, le amicizie, la famiglia, gli interessi, la spiritualità e molte altre cose e tutte queste dimensioni debbono essere in armonia. Una vita familiare travagliata o un amore doloroso hanno lo stesso peso di un lavoro che ci fa soffrire, a mio modo di vedere ma colpevolizziamo il lavoro e cerchiamo di cambiarlo, mentre la nostra condizione nelle altre aree spesso no.
Un tuo suggerimento alle ragazze che intendono fare un percorso di carriera in azienda.
Occorre dimenticarsi il Curriculum, l’azienda dei sogni, i piani che si erano fatti da adolescenti: lasciamoci scombussolare dalla vita, perché è il modo in cui reagiamo a quel cambiamento che ci forma. Mai fermarsi al perimetro del proprio lavoro, ma guardare oltre, creandosi un ruolo anche quando non esiste sulla carta; facciamo in modo da rendere indispensabile il nostro contributo non la posizione che occupiamo. Non bisogna mai pensare di essere arrivate, non siamo ancora nemmeno partite!
Una curiosità su di te da condividere con i nostri lettori?
Ho comprato il mio primo paio di jeans a 39 anni, forse perché al contrario mia madre non ha mai messo una gonna in vita sua…