A 73 anni pubblica il primo album di duetti (c’è anche Ramazzotti). “Se avessi danzato, non starei in piedi. La mia medicina è il palco”
Tra una partita di calcio, la programmazione di un concerto, un tg spagnolo e una carezza al cane trova il tempo di fare una telefonata in Italia: «Sono Julio Iglesias, potrei essere suo nonno, ma non lo sono. E poi mi creda: mi sono svegliato stamattina sentendomi un ragazzino». La chiamata arriva da Miami, dove il più grande cantante latino di tutti i tempi, lo dicono le cifre, ha appena pubblicato Mexico & Amigos, il suo primo album fatto interamente da duetti.
A 73 anni ha ancora voglia di fare cose nuove?
«Certo. Per sopravvivere devo respirare aria nuova. È stato bellissimo fare duetti. In carriera ho cantato con Sinatra, Stevie Wonder e Sting, ma ero io che interpretavo loro pezzi. Ora è il contrario».
Si metta nei panni dei colleghi: può creare imbarazzo duettare con una leggenda vivente.
«Ma sono io che dovrei essere in imbarazzo. Lo sa come canta bene Joaquin Sabina? Crede che Placido Domingo sia il primo che passa? Non direi».
C’è anche Eros Ramazzotti, lo conosceva?
«Sì, è un grande artista».
Perché il Messico?
«Le canzoni messicane tra gli Anni 50 e 60 sono il massimo esempio di musica latina. So che a voi italiani dicono poco, ma è sbagliato avere solo un’idea folkloristica di quello che sono stati i mariachi».
Vedendo un suo nuovo album, il pubblico si può chiedere: a 73 anni Julio Iglesias canta ancora bene?
«Mille volte meglio».
Dice sul serio?
«Sì. Prima ero un cantante mediocre. Ora sono più interessante».
Come mediocre? Mezzo mondo compra i suoi dischi da 50 anni.
«Lo so, ma ho la prova di quello che dico: ora nei miei concerti canto Caruso di Lucio Dalla. Se ci avessi provato a trent’anni, nemmeno da ubriaco ci sarei riuscito. Ora viene molto bene, anzi Caruso è la cosa che mi fa sentire finalmente un cantante».
Insomma, lei non era bravo: dobbiamo avvertire milioni di fan. Ma lei è modesto?
«Se fossi modesto sarei un cinico. So quello che rappresento per molte persone».
Per esempio un seduttore, oltreché un artista. Le dà fastidio l’etichetta?
«Discorsi del passato, ora seduco solo il mio cane. Deve vedere come mi sta guardando ora».
E ha trovato una definizione?
«Significa dire le cose al momento giusto, basta un secondo e addio seduzione».
Si dirà: è tornato Julio Iglesias.
«Non me n’ero mai andato».
Viene spesso in Italia?
«Non quanto vorrei. Ma la cosa che più fa piacere è che in Australia o in Sud America è capitato spesso che degli italiani mi fermassero per dirmi: “Julio, siamo italiani come te”. Non potevano immaginare che l’interprete di Se mi lasci non vale non fosse italiano».
Lei ha cantato per tutti i potenti, leader democratici e dittatori. Ha mai fatto distinzioni?
«Davanti alla musica i potenti sono persone normali, talvolta anche più deboli».
Quando se n’è accorto?
«Una volta stavo a Punta Cana e ricevo una telefonata da Caracas. Il presidente cinese era in visita da Hugo Chávez e all’inizio della cena gli aveva chiesto: “Vorrei vedere Julio Iglesias”. Non concepiva come in un Paese dove si parla spagnolo io non ci fossi. Così ho preso un aereo e sono arrivato mentre erano al dolce. Abbiamo rimediato un pianoforte e una chitarra, quando ho intonato ’O sole mio Chávez e il presidente cinese si sono alzati e abbiamo cantato tutti e tre insieme. Sembravano due ragazzini».
Trump le piace?
«L’ho molto criticato, ma ora ha un altro compito e dovrà cambiare».
Lo ha mai conosciuto?
«Sì, quando ho cantato nei suoi casinò».
Quale musica ascolta?
«Sento di tutto, ma funziona come per i vini: amo quelli che hanno più di vent’anni. Nei nuovi si sente troppo zucchero, fra qualche anno quello che oggi vale due euro varrà duemila».
Ce l’ha con suo figlio Enrique?
«Lui è bravissimo».
Cosa la colpisce della musica di oggi?
«La gente che balla ai concerti. Prima non succedeva».
Lei non balla?
«Mai fatto. Ed è per questo che, sciatica a parte, sto benissimo. Se avessi ballato, oggi non starei in piedi».
E invece?
«E invece sono stato fermo ed ecco che faccio concerti bellissimi. Per la sciatica mi tocca prendere un po’ di cortisone, ma la vera medicina è il palco. Quando vedo che la gente ha fatto i chilometri per sentire me, si è vestita bene, si è pettinata al meglio, io mi sento bene. È una medicina, davvero non è retorica».
C’è una data per il ritiro?
«È la gente che mi deve cacciare. Sua zia mi ascolta ancora?».
Direi di sì.
«E allora resto».
di Francesco Olivo, La Stampa