I tre attori protagonisti al festival con il film ‘Z- La città perduta’ diretto da James Gray, con Hunnam in piena ascesa: “Vengo dalla working class, so cavarmela in ogni occasione”
Molti ottimi attori, poche star quest’anno alla Berlinale. Richard Gere, sempre molto amato, e ora un trittico di interessanti divi britannici concentrati nello stesso film da James Gray. Ressa di fotografi e code di ammiratori per Robert Pattinson, Charlie Hunnam e Sienna Miller, protagonisti di Z – La città perduta, avventuroso film, prodotto da Brad Pitt e basato sul romanzo di David Grann. È ispirato alla vera storia di un esploratore britannico, Percy Fawcett, scomparso insieme al figlio nella giungla nel 1926, mentre cercava una antica città perduta in Amazzonia. A Hunnam tocca il ruolo del protagonista, Pattinson è il luogotenente, Sienna la moglie Nina, donna di grande personalità.
Pur passandosi pochi anni, Charlie Hunnam ne ha 36 anni, Pattinson 30, la Miller 35, i tre attori sono in fasi della carriera diverse. L’ex vampiro di Twilight, dopo gli anni della popolarità estrema vissuti con qualche malessere, ha da tempo imboccato la scelta di ruoli anche defilati in film d’autore presentati ai festival. Qui a Berlino è un ospite assiduo degli ultimi anni, dove è arrivato in versione Lawrence d’Arabia per Werner Herzog (Queen of the desert), fotografo di star per Life di Anton Corbjin. Malgrado Cronenberg gli abbia regalato una chance con Cosmopolis (che fu presentato a Cannes) la carriera dell’attore è in fase di stallo, anche se il trentenne Pattinson sembra molto più a suo agio con se stesso oggi rispetto a qualche tempo fa. Sienna Miller, nata a New York ma cresciuta a Londra, una carriera di alti e bassi e molte pagine anche non gradite sui tabloid legati a pettegolezzi sulla vita privata, sta dimostrando di essere un’ottima attrice: lo si vedrà non solo in Z – La città perduta ma anche, nei prossimi giorni, in La legge della notte nel ruolo di pupa del gangster Ben Affleck, un po’ dark lady, un po’ sopravvissuta.
Anche se più grandicello, la star emergente del trio è Charlie Hunnam. Il biondo ragazzo di Newcastle ha iniziato a nove anni in un programma tv per bambini. Si è poi trasferito a Los Angeles, dove ha fatto una lunga gavetta televisiva e qualche film (Cold Mountain, Children of Man, Pacific Rim), poi il grande successo con la serie Sons of Anarchy, nel ruolo scespiriano del cattivo ragazzo sensibile, Jax Teller, al centro della saga da 92 episodi dedicata al clan di motociclisti di una piccola città americana. Nel 2013 la scrittrice E. L. James aveva annunciato su Twitter che aveva scelto Hunnam per il miliardario Christian Gray nella trasposizione di Cinquanta sfumature di grigio, ma Hunnam ha mollato – ufficialmente per impegni televisivi, e il ruolo è andato a Jamie Dornan. Le illazioni dei media sono state tali e tante che l’attore ricorda il periodo come “uno dei peggiori della mia vita. C’era chi scriveva che avevo avuto un esaurimento nervoso o che avevo avuto paura delle scene di sesso. Invece avevo solo altro da fare, tutto qui”.
Per James Gray era l’unico in grado interpretare il ruolo del tenente colonnello Percy Fawcett, che coinvolge chiunque lo circondi nella sua magnifica ossessione esplorativa. “Avevo bisogno di un attore sui trent’anni, inglese, che avesse il carisma di una star. Di creature così ce ne sono due o tre sul pianeta”, dice il regista. Il nome di Hunnam è in realtà arrivato dalla produzione Plan B, che fa capo a Brad Pitt: “Ho detto ma chi è, il tizio di Sons of anarchy? Poi l’ho incontrato e mi ha conquistato la sua determinazione. Ha perso 25 chili in nove settimane per avere il ruolo”. “Era la migliore sceneggiatura che avessi mai letto, ho sentito subito una grande affinità con Fawcett, colpito dalla sua figura tragica, dalla sua solitudine. Allo stesso tempo era un esploratore alla ricerca di senso, che per lui era scoprire l’esistenza di una complessa e antica civiltà dell’America del Sud. Penso che questo ruolo, questo film, non siano arrivati per caso nella mia vita”. Per prepararsi l’attore ha visitato la Royal Geographical Society, studiato le lettere tra Fawcett e la moglie Nina. Ha voluto un anello identico a quello che portava l’esploratore. “Sono diventato un po’ ossessivo su questa cosa, ma per me era importante: perché era l’anello che indossava quando è scomparso e anni dopo fu ritrovato in un negozio di antiquariato, cosa che ha ovviamente aggiunto mistero alla sua scomparsa”. Delle riprese nella giungla rivela un aneddoto gustoso: “Abbiamo girato al confine tra Colombia e Venezuela nella giungla, in posti decisamente avventurosi. Durante una scena sono caduto, ho poggiato una mano a terra e mi è salito sopra uno scorpione, ha continuato ad arrampicarsi. Se mi avesse morso, e se non avessimo avuto con noi comunque un antidoto, sarei morto in venti secondi. Ho continuato la scena e lui, spaventato da qualcosa, è scivolato via. Ma è stato un giorno da ricordare”, ride, mentre James Gray confessa che non si era accorto di nulla.
Dopo averlo visto come un Indiana Jones ante litteram qui alla Berlinale, Hunnam imbraccerà la spada per King Arthur – The legend of the sword di Guy Ritchie dopo la riuscita rilettura di Sherlock Holmes con la coppia Robert Downey Jr e Jude Law ci riprova consegnando una versione “moderna” del mito di Artù, come un uomo che dal nulla diventa re. Quel re venuto dalla strada è Hunnam, (“so come si fa a botte, sono cresciuto nell’Inghilterra della strada, vengo dalla working class e so come cavarmela in ogni occasione”) mentre nel ruolo dello zio cattivo e stregone c’è Jude Law (nel cast anche David Beckham). Grande attesa, quindi, per il colossal che sembra dalle prime immagini un incrocio tra Lock & stock – Pazzi scatenati e Il signore degli anelli.
Ma la sfida più grande per l’attore, fisico da duro, ironia ma anche sensibilità, è il remake di Papillon nel ruolo di uno dei più grandi attori di sempre, Steve McQueen, al suo fianco Rami Malek (Robot) in quello che fu, nel 1973, di Dustin Hoffman. La regia è di Michael Noer, da una sceneggiatura di Aaron Guzikowski. Si tratta di una rilettura dell’originale, tratto dalle memorie del detenuto e fuggitivo Henri Charriere. Quest’ultimo, condannato ingiustamente (sosteneva lui) negli anni Trenta in Francia, fu spedito all’isola del Diavolo, la famosa colonia penale nella Guiana Francese, in Sud America. E da qui organizzò una rocambolesca, epica fuga, grazie all’aiuto di un altro detenuto.
La Repubblica