In «C’era una volta Studio Uno, il racconto della nascita del programma di Falqui e Sacerdote è solo una sorta di cornice dove ambientare languide storie d’amore
Per parlare di «C’era una volta Studio Uno» bisogna dimenticare «Studio Uno», quello vero, quello che ha fatto la storia della tv italiana, quello di Antonello Falqui e Guido Sacerdote, quello che ha inventato un nuovo linguaggio nell’ambito del varietà. Dimenticare tutto questo, altrimenti il confronto diventa impietoso e tutto si riduce a una rievocazione macchiettistica. Bastano infatti poche immagini di repertorio per rendere inclemente il raffronto (Rai1, lunedì e martedì, 21.25). «C’era una volta Studio Uno» va preso per quello che è: la storia di tre ragazze che nel 1961 entrano in Rai, imperante il nuovo direttore generale Ettore Bernabei: Giulia (Alessandra Mastronardi), Rita (Diana Del Bufalo) ed Elena (Giusy Buscemi). Tutte e tre si ritrovano a lavorare in via Teulada: Giulia entra nel servizio opinioni, Rita come sarta (nonostante i suoi sogni di gloria) ed Elena come ballerina nel corpo di ballo.
Attraverso le vicende sentimentali e lavorative delle ragazze, assistiamo alla nascita di «Studio Uno». Lo show è solo un pretesto, una sorta di cornice dove ambientare languide storielle d’amore. «C’era una volta Studio Uno», prodotto da Lux Vide, è scritto da Lucia Zei e Lea Tafuri ed è diretto da Riccardo Donna. Come sempre, la fiction italiana è poco attenta ai dettagli (dove sono le mitiche auto aziendali di color azzurro metallizzato?), poco scrupolosa. Un solo esempio. Quando a Giulia viene chiesto perché vuole entrare in Rai, risponde: «Perché la tv è il futuro, perché entra nelle case e fa sognare milioni di persone». Manco fosse Umberto Eco. Per questo mi piacerebbe molto che Rai Fiction facesse sua una frase di Antonello Falqui: «Odio tutto ciò che è casuale, fortuitamente lasciato agli eventi, fuori dell’orbita del pensiero. Accanto all’esigenza di accontentare il pubblico nei suoi desideri, ci deve essere anche una volontà di stimolo al buon gusto, a un minimo di senso critico».
Il Corriere della Sera