Avatar – La via dell’acqua è una festa per gli occhi. Recensione del film di James Cameron

Avatar – La via dell’acqua è una festa per gli occhi. Recensione del film di James Cameron

A distanza di 13 anni, il regista canadese firma un sequel più spettacolare del precedente e profondo come il blu del mare. Un’avventura ecologista che riflette sul concetto di famiglia e sul rapporto fra padri e figli

La famiglia viene prima di tutto. Sia per Don Corleone, sia per Sofocle. Lo sa benissimo James Cameron che con Avatar – La via dell’acqua (nelle sale cinematografiche), firma un sequel superiore all’originale uscito nel 2009. Era un’impresa oltre le fatiche compiute da Ercole, tornare su Pandora per proseguire l’avventura cinematografica che, a oggi, rappresenta il più grande successo al box office di tutti i tempi. E proprio partendo con una storia fatta di padri e di figli, il sessantottenne regista canadese firma un kolossal che commuove, diverte, intriga. Un lungometraggio della durata monstre di tre ore e 10 minuti, capace di resuscitare una tecnologia dimenticata quanto le pennette vodka e salmone consumate negli anni Ottanta e restituire al 3D tutta la possente suggestione del cinema delle origini

AVATAR 2, UNA MERAVIGLIA TRA NATIONAL GEOGRAPHIC E IL PADRINO DI COPPOLA

Il budget di Avatar oscilla tra 350 e i 400 milioni di dollari. E sul grande schermo si vede ogni dollaro speso. A volte il realismo risulta tale  che dalla poltrona alzi la mano e tenti, come un bambino di afferrare quelle fantastiche e meravigliose creature marine che spensierate ti nuotano intorno. Insomma, più che perderti in un immaginario globo terracqueo ti pare di assistere a un documentario griffato National Geografic sulla fossa delle Marianne. Nel giro di 13 anni, la motion capture ha compiuto passi da gigante che manco i ciclopi narrati da Omero. Sotto l’epidermide blu del popolo dei  Na’vi, riconosci i tratti inconfondibili di attrici del calibro di Sigourney Weaver e Kate Winslet. Ma questa volta oltre agli effetti, di  speciali ci sono anche gli affetti. Non si assiste al dozzinale girotondo di personaggi bidimensionali che pronunciano battute da età prescolare e hanno la profondità emotiva e cognitiva di un Teletubbies alticcio (al netto del massimo rispetto per i pupazzi della serie della BBC). Qui siamo dalle parti della tragedia greca e della saga del Padrino di Francis Ford Coppola e Mario Puzo. Una lezione di forma trasfigurata in contenuto a che dovrebbe essere studiata soprattutto da Marvel e DC, visti alcuni degli ultimi, cinecomic prodotti non proprio riuscitissimi.

LE AVVENTURE ACQUATICHE DI UNA FAMIGLIA ALLARGATA

Con i sequel, James Cameron, si sa, gioca in casa. Basti pensare ad Aliens – Scontro finale o a Terminator. Il Giorno del giudizio. Se poi ci si aggiunge l’acqua (Titanic insegna) il risultato è garantito, ovvero, gioco-partita-incontro. Il cineasta è un solido costruttore di mondi con i piedi ben piantati sulle nuvole. Riesce a essere inclusivo senza essere pedante, terzomondista pur evitando gli eccessi di retorica. Bisogna non avere cuore, tipo l’uomo di latta de Il Mago di Oz per non parteggiare per il capofamiglia Jake Sully (Sam Worthington) e la sua compagna Neytiri (Zoe Saldana). Genitori intrepidi e orgogliosi della loro  famigliola allargata, composta da tre figli biologici, Neteyam (Jamie Flatters), Lo’ak (Britain Dalton), Tuk (Trinity Bliss) e  due pargoli adottati: un umano, Miles Socorro, soprannominato Spider (Jack Champion), generato in una base militare su Pandora e troppo piccolo, all’epoca per tornare sulla Terra, e Kiri, interpretata da Sigourney Weaver. E la tenerezza frugale di certi scontri che si trasfigurano in incontri fra i piccoli Na’vi e i presunti mostri marini ricorda una versione aggiornata del Folco Quilici di Ti-Koyo e il suo pescecane.

AVATAR, LA VIA DELL’ACQUA CONDUCE ALLA BELLEZZA

La bellezza tracima da ogni inquadratura di Avatar. 2,  parimenti al periodo Blu di Pablo Picasso, il colore del cielo e del mare al cinema  non è mai stato così profondo, spettacolare, immersivo. Cameron firma il suo lungometraggio più maturo, ma non rinuncia allo stupore del bambino di fronte alla meraviglia del creato, seppur immaginario. Tra influenze poetiche care a Terrence Malick e autocitazioni, la pellicola è un’ecologista epopea della biodiversità, suggellata da una strabiliante battaglia navale finale, magari un filo tirata per le lunghe, ma di una potenza che da tempo non si vedeva sul grande schermo e pure sul piccolo. E anche lo spettatore più cinico e distratto, se pensa al titolo del film e all’elemento che per il 71 per cento compone il pianeta su cui noi essere umani viviamo, non può che condividere le parole pronunciate da Tsireya, detta “Reya (Bailey Bass), figlia di Tonowari, capo clan dei  Metkayina: “L’’acqua non ha inizio o fine. Il mare è intorno a te e dentro di te. Il mare è la tua casa prima della tua. L’acqua connette tutte le cose: la vita alla morte, il buio alla luce”.  In fondo, la felicità è semplice. Fare un fanta-kolossal avvincente che duri più di tre ore e che non sembri sceneggiato da uno svogliato alunno delle elementari, invece, no. Per quello devi chiamarti James Cameron e avere 13 anni a disposizione per lavorarci.


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