È un viaggio personale quello che affronta di Bruce Sprinsgteen in «Letter to You», il suo nuovo album. L’embrione del disco (esce il 23), il momento rivelatore, è stata la visita fatta nell’estate del 2018 a un amico malato. Si trattava di George Theiss, leader dei Castiles, la prima vera band di Bruce nella seconda metà degli anni Sessanta. «È morto pochi giorni dopo e questo mi ha reso l’ultimo membro in vita della mia prima band. Ho iniziato a scrivere con quel background, la prima canzone è stata proprio “Last Man Standing”, l’ultimo rimasto. Ci sono riferimenti a cose di quando avevo 14 anni ma anche di oggi», racconta Bruce in collegamento Zoom fra gli apparecchi e gli strumenti del suo studio di registrazione. Giubbino in pelle nera, t-shirt con scollo a «v», chiude gli occhi quando parla, come a cercare la concentrazione giusta per dare peso a ogni parola. Viaggio personale sì, ma affrontato in compagnia. Il Boss torna a farsi accompagnare, dopo 8 anni, dalla E Street Band. «È un disco sui temi della perdita, della gioia di suonare e della splendida vita che fai in un gruppo rock’n’roll. Aver fatto così tanta strada integri, non senza liti, ma con quella fratellanza che viene dall’aver suonato sullo stesso palco per mille e una notti, è una benedizione». Un viaggio che avrebbe dovuto diventare momento di celebrazione collettiva assieme a centinaia di migliaia di fan con il tour, cancellato dalla pandemia prima ancora che ci fosse l’annuncio. «È una grossa perdita», e si sente l’amaro in bocca. Che solo in parte sarà alleviata dal vedere la band in azione in un docu-film, diretto ancora una volta da Thom Zimny (anteprima su Apple Tv+ sempre il 23), che porta dietro le quinte del progetto. In una delle scene si svela che il tour sarebbe dovuto partire da Milano. C’è un momento in cui Bruce e la band brindano ai futuri concerti e al debutto. «Quattro notti a san Siro», gridano mentre tintinnano i bicchieri con gli shottini. E quando il chitarrista Nils Lofgren ricorda di una reazione particolarmente intensa del pubblico milanese, Bruce torna con la memoria al concerto a Napoli del 2013 quando il pubblico cantava anche le parti quasi nascoste di «Rosalita». «È un’’intera popolazione musicale. È da dove vengono mamma, Dora e Ida (le amate zie, di Vico Equense ndr): siamo qui oggi perché quella è la nostra gente».
C’è un altro piccolo grande pezzo del nostro Paese in «Letter to You». La chitarra con cui Springsteen ha scritto i brani è un dono di un fan italiano che gliel’ha consegnata dopo uno degli show teatrali del 2017-18 a Broadway. «Pensavo volesse che gliela autografassi, invece me l’ha regalata. È rimasta un po’ in salotto. Un legno ottimo… un suono eccellente… L’ho presa in mano e in 10 giorni sono uscite le canzoni». Registrate senza troppi pensieri: in 5 giorni, lavorando 3 ore a brano per mantenere freschezza e naturalezza. Il docu-film ci porta dentro al cerchio magico: la E-Street Band in studio, Bruce voce e chitarra che fa sentire per la prima volta i brani, gli altri che prendono appunti, e poi via a suonare. C’anche altro. Tra una sequenza e l’altra, tutto in bianco e nero, si srotola il Bruce-pensiero. «Le parti parlate sono meditazioni su quello che si vede. Mi permettono di espandere i temi del disco fino all’infinito».
Disco personale, ma senza trascurare uno sguardo più universale. «Rainmaker» è il ritratto di un oscuro personaggio. «L’ho iniziata quando c’era Bush, ma sta meglio addosso a Trump perché parla di un demagogo e di cosa lega questi personaggi ai loro seguaci. L’ho messa perché mi sembrava adatta alla situazione attuale». Sulla corsa alla Casa Bianca ha le idee chiare. «Trump perderà e sarà la fine di un lungo incubo per la nazione. L’America resterà unita, nonostante le tensioni. Molto di quello che si vede in tv è frutto dell’isteria creata da una minoranza. La destra estrema è cresciuta perché Trump ha creato un clima che la fa sentire più forte: quando lui se ne andrà, tornerà sotto i sassi da cui è uscita strisciando». Stando sull’attualità, è un sostenitore di Black Lives Matter. «Un movimento salutare e in gran parte pacifico che ci porta in una direzione che è la storia a chiederci. Non possiamo vivere in una società in cui, se sei una persona di colore, ogni giorno rischi che ti sparino per una piccola infrazione».
Tre degli inediti risalgono agli anni 70: «Janey Needs a Shooter», «If I Was the Priest» e «Song for Orphans». «Mostrano dove fosse la mia testa a 22 anni e di come sia possibile tornare a quel momento avendo allo stesso tempo i muscoli, la forza e la mente costruiti negli anni. Suonai “If I Was a Priest alle audizioni con John Hammond, l’uomo che scoprì Bob Dylan, Billie Holiday e, Aretha Franklin, e che mi fece firmare il primo contratto discografico». Ci aveva visto bene. Questo è il «solo» l’episodio numero 20.
Andrea Laffranchi, Corriere.it