È tornato Tommaso Paradiso. O, meglio, vi presento Tommaso Paradiso. Il cantautore romano debutta a 38 anni. Uscirà a gennaio «Space Cowboy», il primo album con il suo nome e cognome. E da oggi è fuori «Magari no», singolo che lancia il progetto dell’ex leader dei Thegiornalisti.
Ci sono stati altri singoli a suo nome, ma «Magari no» esce con l’annuncio del disco: il vero debutto solista…
«Volevo qualcosa di personale. La scrittura è la stessa, da quando ho iniziato prima dei Thegiornalisti, ma cercavo un vestito diverso. Qui ho messo l’idea della musica del mio cuore, il mio gusto e la mia estetica».
Quando le hanno mandato la cover con la scritta «Tommaso Paradiso»?
«L’ho voluta e già che c’ero ci ho messo per la prima volta pure la mia faccia, non quella classica da copertina, ma con un richiamo alle ascendenze estetiche di quel periodo, fine anni 70-inizio 80, che amo».
«Magari no», nei suoni e nel testo, ha la sua firma malinconica…
«Parlo di un uomo solo in macchina che vuole ritrovarsi, o forse perdersi. Gira per le autostrade senza meta, si ferma all’autogrill e poi sbrocca. Alla donna che gli ha preso tutto e non gli ha dato indietro nulla dice di prendersi pure questa canzone».
Lei si è perso o si è ritrovato dopo la burrascosa separazione con i Thegiornalisti?
«È stato un passaggio di vuoto, ma è una sensazione che mi ha sempre accompagnato. Mi sono sempre sentito perso, e per questo scrivo canzoni. La gente mi guarda, si immagina uno di successo, ma dietro ci sono quei vuoti e quelle turbe che mi fanno impugnare penna e chitarra».
In «Sold out» si immaginava il suo funerale, qui c’è uno che guida in autostrada e ci fa capire che anche se il freno non dovesse funzionare… La morte è pop?
«Tema complesso… Abbiamo una visione della morte legata al cattolicesimo e a stereotipi occidentali. Analizzando le morti di Socrate, l’imperatore Giuliano e Sant’Agostino, un filosofo come Riccardo Chiaradonna fa notare che l’unico a disperarsi è l’ultimo. Perché? Perché si stava pentendo. Dovremmo farci pace con questo tema, ma io credo che non ci riuscirò mai»
Un disco figlio del lockdown?
«Quando scrivi sei figlio del tempo che vivi e ho scelto di non scrivere nulla. Ne discutevo al telefono con Calcutta, certe parole come “ospedale” sarebbero state fuorvianti. Avevo fogli sparsi, concetti e melodie che ho tirato fuori prima dell’estate, quando è tornata un po’ di luce e sono andato in studio».
«Space Cowboy» è un omaggio a Jamiroquai?
«No, non c’entra nulla. Volevo dirlo in italiano, ma vaccaro nello spazio non suona bene… In queste due parole c’è la sintesi di quello che amo nella vita: la parte legata alla terra, alla natura, che nella musica è quella “marcia” fatta di chitarra, basso e batteria. E poi c’è il sognatore malinconico, in musica sono i synth e quegli arrangiamenti dream pop, che ha come passione quella di guardare il cielo. Sono così appassionato che divoro docu e libri… Vorrei fare un corso di astronomia».
In attesa del tour spostato più volte causa pandemia ha scelto di non fare concerti a capienza ridotta…
«Ogni volta che sento il disco mi immagino quando sarò a cantarlo con la gente. Poi quando domenica a San Siro — lasciamo stare il risultato di Milan-Lazio… — ho visto 40 mila persone e le curve ammassate, ho rosicato… Si fanno campagne sulla ripartenza di cinema e teatro, sulla musica mai un ca…».
Il concerto senza regole di Salmo a Olbia?
«Ha ragione e torto allo stesso tempo. Poteva studiarla meglio, ma anche dalle ca…ate possono nascere fiori. Si parla dello stato della musica live anche per quel gesto».
C’è un altro debutto. Tommaso Paradiso regista…
«Sulle nuvole è pronto. La parte più bella del fare musica e cinema è la scrittura: crei mondi che non esistono».
Se «Space Cowboy» fosse un film?
«Un film d’autore, molto personale in cui il protagonista si mette a nudo e svela i propri difetti. È il disco più intimo che ho mai fatto, ma resta universale perché, fidatevi, ha il ritornellone».
Andrea Laffranchi, corriere.it