È anche merito suo se la moda degli anni Novanta è ancora tanto in voga. Claudia Schiffer è una delle pochissime, vere supermodelle, e ha influenzato il costume tanto quanto creativi e fotografi. Forse pure di più, devono essersi detti al Kunstpalast, il museo di Düsseldorf che l’ha voluta come curatrice della mostra Captivate! Fashion photography from the 90s, sulla fotografia di moda di quel periodo, visitabile fino al 9 gennaio 2022. La supermodella ha accettato la sfida, e alla vigilia dell’inaugurazione pare davvero emozionata: dopotutto la mostra racconta la storia sua e di chi era lì con lei. È una questione personale.
Claudia, come ha selezionato le immagini?
“Per ogni singola immagine mi sono chiesta: è davvero anni Novanta? Rappresenta la visione di quegli anni, è espressione del fotografo, che sia il bianco e nero di Peter Lindbergh, la libertà di Ellen von Unwerth, il realismo di Mario Sorrenti? Mi premeva molto rendere la poliedricità espressiva di quel periodo, in pieno contrasto con i patinati anni Ottanta”.
Instagram è zeppo di post sulla moda di allora, perché c’è ancora tanto interesse?
“È stato negli anni 90 che la moda è penetrata davvero nella società, modificandone aspetti e costumi. Penso al Gucci di Tom Ford o alle foto di Kate Moss per Calvin Klein: mondi diversi ma altrettanto influenti. Mtv ha iniziato a trasmettere programmi a tema attirando l’attenzione dei più giovani, mentre nell’editoria si sono moltiplicate le riviste alternative, di nicchia, e in parallelo sono esplosi i fenomeni delle top model e dei designer superstar. Era un periodo frenetico”.
Avrà avuto parecchio materiale tra cui scegliere.
“Sì, anche perché ci tenevo che fossero presenti tutte le tecniche fotografiche dell’era pre-digitale, dalle stampe ai sali d’argento ai composit delle modelle. A questa massa infine ho aggiunto pure molte mie istantanee personali, non posate, più ‘spontanee’, che ho raccolto nel tempo. Per questo l’allestimento va per temi, senza un ordine cronologico”.
Quali sono le sue immagini preferite?
“Per valore sentimentale, direi i miei primi test fotografici. E anche un mio ritratto realizzato da Helmut Newton, con cui ho avuto l’onore di lavorare”.
A proposito di Helmut Newton: le sue foto tanto provocatorie oggi forse non sarebbero nemmeno pubblicate.
“Lo ripeto, è stato un onore incontrarlo. Ci siamo capiti subito: eravamo entrambi tedeschi, organizzati, calmi e controllati. Lui sapeva sempre quel che faceva, e questo ti dava sicurezza. Il suo lavoro causa tante polemiche perché ha ribaltato i canoni della rappresentazione femminile, esaminando ogni aspetto della sessualità con grande intelligenza. Le sue donne sono forti nel corpo e nello spirito. Ho voluto pure un suo scatto di Carla Bruni con il monocolo: mi sembrava calzante”.
Ripensando a quel periodo, cos’era per lei più spiazzante?
“Era follia. Noi modelle eravamo come rockstar, avevamo bisogno della security anche solo per salire in auto. C’era chi faceva dei buchi nelle tende dove sfilavamo per fotografarci mentre ci svestivamo, tanto che i backstage erano pieni di bodyguard. Io ne avevo pure per la mia biancheria: per indossare i look degli show la toglievo e la lasciavo accanto ai miei vestiti, e sistematicamente dopo non la trovavo più!”.
Sono esposte anche le foto che le fece Ellen von Unwerth nel 1989 per Guess, e che l’hanno lanciata a 19 anni. Come andò?
“Ho conosciuto Ellen a Parigi, quando avevo 17 anni. Eravamo entrambe agli inizi, e siamo diventate amiche: ho questo ricordo di lei che mi faceva delle foto di prova – io ero vestita con i miei abiti, nemmeno m’ero cambiata – nelle vie attorno al Centre Pompidou. Quegli scatti li vide Paul Marciano di Guess, che ci ingaggiò entrambe per la campagna. Da lì, divenni anche il volto del profumo del brand, che stavano lanciando”.
Quando s’è resa conto del suo successo?
“Proprio per quel profumo avevo fatto un tour nei vari department store negli Stati Uniti, comparendo pure nei talk show di Jay Leno, Oprah Winfrey e David Letterman. Finito tutto, qualche mattina dopo ero nell’ascensore del mio condominio a New York, ancora mezza addormentata, spettinata e senza trucco: sale un tizio, che mi guarda e sbotta, ‘Ma sei la ragazza Guess!’. Ecco, lì ho capito che la mia vita era cambiata per sempre”.
In mostra c’è anche una foto di lei vestita da sposa con Karl Lagerfeld a una sfilata Chanel. È stato lui a farla debuttare in passerella, giusto?
“Esatto. Io e lui abbiamo lavorato assieme per 30 anni: secondo me Karl sta alla moda come Warhol sta all’arte. Lui ha trasformato questa timida ragazza tedesca in una supermodella, mi ha insegnato a sopravvivere in questo mondo. Mi ripeteva continuamente di rimanere fedele a me stessa e dare retta al mio istinto: non l’ho mai dimenticato”.
Uno dei suoi shooting più famosi è quello fatto a Roma, con la città bloccata dai suoi fan.
“1995, campagna per Valentino, foto di Arthur Elgort. L’ispirazione era La dolce vita, con me nel ruolo di Anita Ekberg. Per tutto il giorno avevamo attirato sempre più curiosi, finché proprio come nel film ci siamo ritrovati inseguiti dai paparazzi. Il momento più surreale? Per uno scatto mi sono affacciata a un balcone salutando la folla sottostante, e la gente ha iniziato a scandire il mio nome tipo cori allo stadio”.
Il manifesto della sfilata è una foto di Richard Avedon del 1994 per Gianni Versace a/i con lei e altre supermodelle. Perché ha scelto proprio quella?
“Quelle campagne incarnano il glamour e la creatività di quel periodo: Gianni – lui e Donatella sono persone meravigliose – è stato il primo a trasformare le sfilate in show veri e propri, con un palcoscenico e le luci da concerto. Mi ricordo una volta in cui c’eravamo noi che sfilavamo al ritmo di un brano di Prince, e lui seduto in prima fila”.
Lei fa ancora la modella, ma in realtà ha molto altro in ballo, mostra a parte. Per esempio, una sua nuova linea di abbigliamento.
“L’ho creata con Réalisation Par, un brand che mi ha fatto scoprire mia figlia Clementine. La collezione prende molto dagli anni 90: in effetti sono proprio partita dal mio armadio, dai pezzi che allora usavo più spesso. Si torna sempre lì”.