I 70 ANNI DEL GUERRIERO OLIVER STONE

I 70 ANNI DEL GUERRIERO OLIVER STONE

In this Wednesday, Nov. 14, 2012, photo, American film director, screenwriter and producer Oliver Stone poses for a portrait in New York. Oliver Stone has never been shy about ruffling feathers with his take real-life events. From “J.F.K” and “Nixon,” to “Salvador” and “W,” Stone has challenged the history that we know by incorporating a revisionist view. His latest project, “The Untold History of the United States," a ten-part series, currently on the premium Showtime network, explores the facts he feels were suppressed for one reason or another. (Photo by Carlo Allegri/Invision/AP)

Festeggia domani il suo settantesimo compleanno Oliver Stone (nato Silverstein), newyorchese puro sangue, ma figlio di un agente di cambio di sangue ebraico e di una giovinetta francese incontrata e amata dal padre sui campi di combattimento europei della prima guerra mondiale. A 70 anni il “guerriero” Stone non mostra segni di invecchiamento e fiacchezza creativa: il suo “Snowden”, con Joseph-Gordon Lewitt nei panni dell’informatico ex agente Cia che rivelò su wiki leaks moltissimi files governativi segreti, è stato subito esaltato alla “prima” del festival di Toronto e si avvia a una marcia trionfale verso le nomination all’Oscar. Per il regista non sarebbe una novità viste le tre statuette vinte (una da sceneggiatore e due da regista) e la letterale incetta di candidature raccolte dalla maggior parte dei suoi lavori.
Dopo una vita avventurosa come soldato (in Vietnam si guadagnava le più prestigiose decorazioni), marinaio, tassista e corriere, dopo la laurea in Cinema alla New York University, fallisce l’esordio come regista con “Seizure” del ’74, ma si riscatta come sceneggiatore nel 1978 vendendo ad Alan Parker il copione di “Fuga di mezzanotte“: un film duro, teso come una corda di violino che sbanca il botteghino e lo porta fino all’Oscar come miglior sceneggiatore.
Da lì la sua carriera riparte e pareggia una seconda sconfitta da regista (“La mano” del 1981 con Michael Caine) con il trionfo del suo copione per “Conan il barbaro” di John Milius. Scrive per Brian De Palma (il mitico “Scarface“), Michael Cimino (l’ammirabile “L’anno del dragone”) e finalmente si impone con il personalissimo “Salvador” del 1986 sui reporter di guerra. Da lì tutto corre in discesa, freneticamente. Hollywood accetta la sceneggiatura autobiografica che rivede ossessivamente dalla fine degli anni ’60 e porta alla gloria “Platoon” nel 1986 (quattro Oscar tra cui il suo su otto nomination); seguono “Wall Street” (1987) sul mondo della finanza con il memorabile Gekko di Michael Douglas (premio Oscar); “Talk Radio” sul mondo dei media, “The Doors” sul mito maledetto di Jim Morrison. In mezzo ritorna al Vietnam con “Nato il 4 di luglio” ispirato alla vita dell’eroe senza gambe Ron Kovic portato sullo schermo da Tom Cruise. Ancora una volta Hollywood gli sorride nel 1989 con due oscar e otto nomination. La filmografia di Oliver Stone è spesso bulimica, quando non interrotta da fragorosi incidenti di percorso. Così vanno ricordati i tre film sui presidenti americani (“JFK”, “Nixon” e “W”) l’ultimo capitolo della sua trilogia sul Vietnam “Tra cielo e terra” del 1993, “Assassini nati” del 1994 (da una sceneggiatura poi misconosciuta di Quentin Tarantino), il visionario “U turn” del 1997, “Ogni maledetta domenica” del 1999, “World Trade Center” del 2006, il seguito di “Wall Street” del 2010 e “Le belve” di due anni dopo. Fa storia a parte il colossale fiasco di “Alexander” del 2004 in cui il regista proiettò il suo gigantismo nel personaggio di Alessandro Magno, spendendo oltre 150 milioni di dollari per un’impresa rifiutata dalla critica e solo parzialmente salvata dagli incassi.
Gioviale, massiccio, collerico, diretto, passionale e polemista, Stone fa paura spesso anche ai suoi colleghi: Kubrick ritardò di un anno l’uscita di “Full Metal Jacket” per non entrare in concorrenza con “Platoon“, Tarantino fece slittare la prima di “Pulp Fiction” per non doversi confrontare con “Assassini Nati“. Nonostante abbia spesso trovato più calore e accoglienza in Europa che in patria, resta un americano della frontiera. Sicché ci si stupisce ancora che non abbia mai girato un western: in quel mondo sarebbe diventato sceriffo, bounty killer o fuorilegge allo stesso modo: per idealità.
(ANSA).

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