Il maggior tecnico italiano del suono, Federico Savina, facendo lezione agli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, pare iniziasse sempre chiedendo ai ragazzi se ricordavano la colonna sonora de Lo Squalo. E quando tutti accennavano le celebri due note (mi- fa) che si ripetono ossessivamente, interrompeva subito: “Fermi! Avete dimenticato quello che viene prima. Una nota bassa, che quasi non si sente ma arriva allo stomaco, e che subito crea la tensione. È quella la cosa più importante! A volte è in un dettaglio che c’è la chiave di un successo”. Lo stesso Steven Spielberg sosteneva che metà del successo del film fosse dovuto a quella partitura, divenuta subito celebre. Lo squalo, nel pieno degli anni ’70, inaugura una maniera nuova di vedere (e sentire) l’orrore. Nel biennio precedente erano usciti altri due titoli che giocavano con l’orrore immergendolo nella luce del mondo contemporaneo, Non aprite quella porta e L’esorcista, ma quella di Spielberg è un’operazione più duratura, che incide sul mainstream. Come tutti i grandi simboli, lo squalo è tante cose. Interpretazioni in chiave di metafora sessuale o politica si sono susseguite da subito. Eppure, come diceva un grande critico italiano, Franco La Polla, lo squalo è anzitutto uno squalo, come il Moby Dick di Melville. Una creatura fisica, un vettore di suspense. Proprio questo suo essere anzitutto motore del racconto gli consente di poter rappresentare tante cose, ma oggi la cosa più interessante è forse vederlo anche come espressione di un’epoca.Quando gira lo squalo Spielberg ha 28 anni, ha lavorato molto per la tv e ha fatto un solo film per il cinema, Sugarland Express. Tra i lavori televisivi però c’è uno dei suoi capolavori, Duel, storia di un uomo inseguito per strada da un misterioso camion di cui non vediamo mai il guidatore. Un film, se vogliamo, che anticipa qualcosa Lo squalo, con un “mostro” che fa da contenitore di ansie indefinite. Lo Spielberg degli anni ’70 è molto diverso da quello successivo: ancora immerso nello spirito più o meno contestatore della New Hollywood, un cinema che cercava di rendere protagonista gli autori, di scardinare il potere delle major e aggiornare stile e contenuti. Dopo la catastrofe economica di 1941- Allarme a Hollywood, Spielberg imparerà la lezione e negli anni ’80 si farà, come regista e come produttore, abilissimo costruttore di miti e di fiabe che rileggono il cinema del passato, dalla saga di Indiana Jones a E.T., pur non rinunciando talvolta a confrontarsi con i grandi drammi storici (da Il colore viola a L’impero del sole).
Quella che accoglie Lo squalo società inquieta, in crisi (Nixon si è dimesso nemmeno un anno prima, Saigon cade poche settimane prima dell’uscita del film). Spielberg, va detto, elimina molti elementi di critica sociale presenti nel romanzo di Peter Benchley (c’era addirittura la criminalità organizzata) e mette in ombra i personaggi femminili: quello che gli interessa è l’azione. Però proprio in questi giorni di tumulti fa uno strano effetto guardare un film in cui le autorità politiche mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini, negando l’esistenza del pericolo per non danneggiare l’economia, e tra i personaggi si fanno strada sotterranee tensioni sociali (il sindaco che rifiuta la realtà dello squalo finché può, il rude cacciatore proletario, lo scienziato borghese). Perché il mostro è uno, ma coloro che lo combattono hanno storie, aspirazioni, problemi sociali assai diversi, e le contraddizioni esplodono. Vi ricorda qualcosa?
Emiliano Morreale, Repubblica.it