Metti un rapper, oddio facciamo uno partito dal rap, che ha scoperto la musica in chiesa e si autodefinisce «un bravo ragazzo un po’ fuori di testa»: Random, ultimo tentativo hip hop sfornato dalla factory degli «Amici» (questa volta «speciali») di Maria De Filippi, è davvero lontano dagli stereotipi del genere, persino di quelli decontestualizzati e mainstreamizzati che impazzano in Italia. All’anagrafe si chiama Emmanuele Caso, ha 21 anni, è nato a Portici, ma è rimasto per pochissimo nel napoletano, passando anche per Massa di Somma: «A due anni sono andato via, con i miei genitori». Ed è con loro, pastori evangelici, che è stato folgorato dalla musica: «Mamma è sempre stata molto religiosa, ed ha convertito anche mio padre, che suonava il basso e la chitarra in chiesa. Suoni e fede sono diventati in me un tutt’uno, poi mi hanno regalato una batteria, la suonavo anche io durante le funzioni, grazie a papà, grazie a Dio».
Insomma, dimenticate non solo il primo rap «Cnn del ghetto», ma anche quello successivo, gangsta e maschilista, e quello trap e trappano delle ultime generazioni italiche: siamo sulle «Montagne russe» del primo ep di Random, più melodico che hip hop, più cantabile che urban, forte dei contributi di Ernia («Soli al mondo»), Emis Killa («Police», ma non crediate di sentire accuse contro le forze dell’ordine o slogan tipo «Acab») e Carl Brave («Marionette»), oltre che del primo successo del ragazzo, «Chiasso». «La mia vita è stata davvero una serie di montagne russe, in un anno di carriera mi è già successo tanto, compreso il successo, compresa la televisione con Maria», riflette lui, presentandosi: «Sì, sono davvero un bravo ragazzo un po’ pazzo. A 13-14 anni ero uno scugnizzo di strada a Riccione, poi ho conosciuto, in chiesa, una ragazza, e la mia vita è cambiata». Torna la chiesa, non solo come fede, ma come luogo: «Siamo stati insieme fino ai miei 17 anni, quando ci siamo lasciati sono stato malissimo, i primi pezzi li avevo scritti per lei, erano dediche, racconti delle mie/nostre esperienze. Poi ho capito che dovevo andare oltre, che non potevo fermarmi allo sfogo, che volevo lasciare il mio messaggio, spiegare chi sono: sono generoso, bravo, voglio bene a tutti, ma magari lo dico in maniera poco ortodossa, finendo per assomigliare a un cartone animato».
L’hip hop l’ha lasciato alle spalle: «Ho cominciato con il freestyle, era bello creare sul momento, anche solo pensando al suono, senza dover dire per forza qualcosa di sensato. Sono passato per una trap aggressiva, penso al mio album d’esordio, “Giovane oro”, del 2018. Oggi, però, non mi definirei più un rapper, non so come mi definirei, magari non è importante definirsi, quanto presentarsi al proprio pubblico in maniera sincera. E io lo faccio».
Il nome d’arte è la traduzione del suo cognome, ma anche la sua «carta d’identità musicale: io non ho un genere musicale predefinito, la mia è musica libera senza cliché», dice, parlando di versi e suoni pop, leggeri, giovanili, senza pretese alcuna. Prima di inseguire la fama ha fatto il muratore, tra le sue «stranezze» c’è l’immergere i panini prima nel ketchup e poi nella Coca Cola, ad «Amici» lo avevano scelto nel 2017 (ma lui non lo sapeva), ora l’hanno voluto nell’edizione speciale di beneficenza appena conclusasi con la vittoria di Irama: «Devo dire grazie a dio che mi ha fatto il regalo della tv, di quel pubblico straordinario, e poco importa il risultato della gara, quello che conta è il risultato della vita, quando scendi dalle montagne russe».
E le radici campane? «Giù c’è parte della mia famiglia, avverto forte il richiamo, il mio essere sudista, anche se manco da molto».
Federico Vacalebre, ilmattino.it