La terza e ultima stagione di Boris era andata in onda su Fox dieci anni fa. Eppure, ora, appena la serie è atterrata su Netflix, è schizzata fra le tre più viste della piattaforma. Ai tempi, era un cult. Paolo Sorrentino, per dire, si prestò a interpretare se stesso in un cameo. Le 42 puntate dai toni dissacranti raccontavano il dietro le quinte della fantomatica soap opera Gli occhi del cuore. Francesco Pannofino era il regista René Ferretti, quello che, per fare in fretta, invitava gli attori a fare le scene «alla ca…o di cane».
Pannofino, cos’ha di speciale Boris per funzionare ancora oggi?
«Raccontava cose vere e non diverse da quelle di oggi. E certe dinamiche e gerarchie sono esperienze comuni in cui tutti possono riconoscersi. Come con Coso, lo stagista, o meglio “lo schiavo” interpretato da Alessandro Tiberi, di cui nessuno ricorda il nome e che tutti chiamano Coso. La serie era scritta benissimo da autori lasciati liberi anche di scegliere il cast, senza che nessuno piazzasse raccomandati vari. Noi attori sappiamo bene che puoi arrivare su un set e dire: non ci posso credere».
«Non ci posso credere» a cosa?
«A certe compagnie così scalcagnate, a tanta sciatteria».
Di quali scene ride ancora?
«Tutte quello con la prima attrice, quella “cagna maledetta” interpretata da Carolina Crescentini. Guardi che devi essere molto brava per fingere di essere una cagna che prova a essere brava e non ci riesce. Tutti gli attori erano azzeccati: Pietro Sermonti, che fa il primo attore Stanis La Rochelle, Caterina Guzzanti la producer, Paolo Calabresi che fa Biascica… Ricordo la scena mitica con Roberto Herlitzka chiamato, da monumento del teatro, per il cameo del nonno. Il mio René doveva spiegargli la scena. C’entrava un anello, Herlitzka voleva capire la storia dell’anello, ma nessuno la sapeva. Io gli dico: “Molla, fregatene, che t’importa? Fai la faccia a ca…o di cane”. È lì che nasce il famoso intercalare».
Qualcuno si è riconosciuto nei personaggi e si è offeso?
«Non sa quanti registi fossero fieri, convinti che mi fossi ispirato a loro… C’era la fila per riconoscersi. Margherita Buy l’abbiamo parodiata in Boris – Il film: parlava piano piano e non si capiva niente, lei fu tutta contenta. Come Fabrizio Frizzi: un una scena, annunciavo una fiction sul Beato Frediani e dicevo “la parte è già andata a un attore di serie A, è andata a Fabrizio Frizzi”. Mi chiamò tutto felice e volle intervistarmi in un suo programma per venti minuti. Era un fan scatenato».
Boris fu la prima serie prodotta dalla Wildside, che poi ha fatto il papa di Paolo Sorrentino, L’amica geniale, 1992… Immaginava che quella piccola società di produzione sarebbe cresciuta così tanto?
«Era fatta da ragazzi giovani e intelligenti, che alla Fox incontrarono una dirigenza illuminata, che non ebbe paura di contenuti dirompenti e di ascolti, all’inizio, ridicoli».
Vede ancora in giro fiction tirate via, come quelle che Boris metteva alla berlina?
«Un po’ sì. Mi spiace che Boris non abbia aperto la strada a nuove storie. Restano i generi, le serie ospedaliere, quelle poliziesche… Non tutte sono brutte. Fare Nero Wolfe mi è piaciuto molto, era una serie fatta bene, anche perché veniva dai romanzi di Rex Stout, c’era ciccia».
Quello di René Ferretti è il suo primo ruolo importante, perché arriva a quasi 50 anni?
«Lavoravo felicemente fra teatro e doppiaggio da 30 anni, avevo fatto delle parti, ma ero conosciuto soprattutto come voce, avendo doppiato tutti i film di Denzel Washington e George Clooney. L’idea che si potesse fare sia il doppiatore sia l’attore non era ben vista».
Quante volte ha doppiato Clooney?
«Lo doppio da sempre, siamo praticamente congiunti. Una volta, era a Roma a una prima e mi ha chiamato per complimentarsi, però dichiarando di essere ubriaco. Conto sul detto “in vino veritas”».
Ora, i set sono fermi, i teatri chiusi. Che progetti ha?
«Ho dovuto interrompere la tournée di Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek. La ripresa dei set la vedo lontana, non immagino attori che a breve si abbracciano e bacino. Il doppiaggio, invece, sta ripartendo. Ho appena fatto una piccola sessione di speakeraggio. I protocolli prevedono che gli attori registrino separatamente e le voci vengano unite dopo. Succedeva già prima, ora è la regola, con la sanificazione fra uno e l’altro e senza la seduta di chiacchiere nel salottino di attesa».
Lei ha letto tutto Harry Potter per Audible, il boom degli audiolibri durerà?
«Spero di sì. Ho appena letto anche I Medici di Matteo Strukul. Amo leggere ad alta voce e in più mi pagano. Non l’avrei mai immaginato quando, da chierichetto, mi facevano leggere gli atti degli apostoli, o quando al militare, facevo lo speaker al carosello di Piazza di Siena. Alla fine, quello della voce è un mestiere che non mi ha mai abbandonato».
Candida Morvillo, Corriere.it