Due anni di lavorazione, dieci mesi di riprese, centinaia di comparse: ecco perché è l’apice dell’evoluzione seriale
Suona un po’ forzato dire che di serie come “Game of Thrones”, con le stesse aspettative, le stesse risorse e la stessa visione d’insieme, non ne verranno più fatte. Siamo nel 2019, ci sono tantissimi player e tantissime piattaforme; il 12 aprile è stata annunciata quella di Disney e a fine anno arriverà anche Apple tv+. “Game of Thrones” è l’apice dell’evoluzione seriale: tutto quello che si poteva fare sul piccolo schermo e che è stato fatto; un insieme efficace di più elementi, di scrittura, di regia, di effettistica. È il primo, vero blockbuster televisivo.L’ultima stagione, in onda su Sky Atlantic e disponibile su NowTv dal 15 aprile, è costata quasi 100 milioni di dollari. Ci sono voluti due anni di lavorazione, dieci mesi di riprese; centinaia e centinaia tra comparse e addetti ai lavori. È il gioiello della corona di Hbo, e probabilmente – questo non è forzato da dire, no – lo resterà per molto tempo. Ma cos’è “Game of Thrones” e cosa rappresenta (e cosa rappresenterà) sono le due facce della stessa medaglia, due risposte diverse alla stessa domanda. E cioè: dove sta andando la tv.
“Game of Thrones”: che cos’è
“Game of Thrones” nasce come l’adattamento di una serie di libri fantasy, “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di George RR Martin, e con il tempo diventa qualcos’altro: si allontana dalla trama originale, rimasta indietro, e prende un’altra strada. Vendette, lotte di potere, sesso. “Game of Thrones” è la storia di un gruppo di persone, in un continente che ricorda il Regno Unito medievale, che si affrontano per conquistare la corona e per sopravvivere. Non è tanto per il suo racconto più ampio, più grande, che “Game of Thrones” è riuscita ad affermarsi. Quanto per quello intimo, più piccolo, fatto di interazioni e piccoli scontri, di complotti, trame e confessioni. È uno show che piace tanto, dicono gli attori che ci hanno lavorato, perché è umano. E l’umanità si rispecchia in alcuni personaggi più di altri. Come Sam Tarly, interpretato da John Bradley. O in Ser Davos, interpretato da Liam Cunningham. L’ottava stagione di “Game of Thrones” è la fine di un viaggio: dieci anni di lavoro, centinaia di ore di post-produzione, tante, tantissime professionalità, e una storia che, nel piccolo schermo, resta ancora unica, inedita. È il grande evento. Il fenomeno. La spettacolarizzazione massima di una forma di racconto. Per qualcuno, è anche una rappresentazione – in chiave, chiaramente, metaforica – dei tempi moderni. Della nostra politica. Della nascita e della morte dei nazionalismi. Di tante, tante cose. E anche per questo “Game of Thrones” è un unicum, un’eccezione, un caso da studiare.
La storia fino a questo punto
Ci sono diverse famiglie, diversi casati, in lotta: da una parte i Lannister, dall’altra gli Stark. Quindi i Targaryen, i legittimi detentori del potere, che ritornano a Westeros, il continente dell’ovest, per reclamare quello che è loro di diritto. Ognuno ha un proprio obiettivo e una propria agenda. Nella settima stagione, è successo che quelle degli Stark e dei Targaryen hanno finito per coincidere. Jon Snow, Re del Nord, si è alleato con Daenerys Targaryen per combattere gli Estranei, i non-morti, esseri magici e glaciali che si preparano a marciare verso Sud ora che la Barriera è stata distrutta.In sei episodi scopriremo non solo chi sopravviverà, se vinceranno i mostri o gli esseri umani, ma anche, si spera, chi siederà sul Trono di Spade: ad Approdo del Re, la capitale, Cersei Lannister (Lena Headey) aspetta l’arrivo di un nuovo esercito da Essos, il continente dell’Est, e di capire contro chi – o cosa – dovrà scontrarsi. Ovviamente, poi, ci sono le sotto trame: Jon Snow (Kit Harington) non è solo uno Stark da parte di mamma, ma pure un Targaryen, il legittimo erede e nipote di Daenerys (Emilia Clarke), con cui intrattiene una relazione.
Una sfida sempre nuova
Ogni nuova stagione di “Game of Thrones”, a cominciare dalla seconda, ha sempre alzato l’asticella della qualità, e ha sempre provato a fare qualcosa di diverso. Di totalmente inedito. La decisione, abbastanza forte, di uccidere il personaggio – e quindi l’attore – più importante della prima stagione è stata, forse, quella fondamentale. Quella che, poi, ha settato il tono e le aspettative per tutte le altre. In molti, ancora oggi, trovano che sia stato Sean Bean, mettendosi in gioco, a dare immediata credibilità a “Game of Thrones” (e pensare che il primo pilota, il primo episodio di prova, era terribile).
Il centro di tutto: Benioff e Weiss, i due creatori
Insieme alle aspettative, sono aumentati anche i soldi, il budget e le risorse, e quindi le ambientazioni sono cambiate, si sono diversificate, sono stati coinvolti più attori e più registi. Al centro di tutto sono rimasti i due creatori, David Benioff e D. B. Weiss, che hanno saputo trovare il giusto equilibrio tra possibile e impossibile, tra quello che è credibile e quello che, invece, resta assolutamente straordinario. Un esempio importante, e che vale la pena menzionare, è come la magia sia stata inserita all’interno del mondo di “Game of Thrones”: come, nel corso delle varie stagioni, sia stata sempre qualcosa di estremamente raro e di difficile, quasi casuale, di cui era impossibile prevedere effetti e riuscita. Come quando Melisandre, la sacerdotessa rossa interpretata da Carice van Houten, ha riportato in vita Jon Snow. Gli stessi draghi hanno assunto un ruolo quasi marginale nella lotta per la conquista del potere, saggiamente limitati e, poi, bilanciati (nella settima stagione Viserion, uno dei tre “figli” di Daenerys, è stato ucciso ed è poi rinato come drago di ghiaccio del Re della Notte).
Che cosa aspettarsi dall’ultima stagione
Prevedere chi, o cosa, vincerà, quale fazione delle tante prevarrà, resta difficile. E non solo per stessa ammissione di Benioff e Weiss, che hanno detto più volte che con uno show come “Game of Thrones” è impossibile accontentare tutti i fan (e quindi, di conseguenza, adottare la soluzione più semplice); ma anche per il lavoro che Hbo e i vari broadcaster nazionali, come Sky in Italia, hanno fatto sulla serie. La prima regola, la più importante, è stata la segretezza. Ai giornalisti, per questa stagione, non sono stati consegnati in anticipo screener. Le anteprime sono state solo due: una negli Stati Uniti e l’altra a Belfast.È probabile che moriranno molti dei personaggi più amati. Ed è molto probabile che succederà nel corso dei primi episodi, durante la Battaglia di Grande Inverno (che è uno dei momenti più attesi di tutta la stagione, quando gli Stark e i Targaryen combatteranno contro gli Estranei). Ed è altrettanto probabile che nessuna delle teorie che stanno circolando adesso in rete sia corretta. O almeno, che nessuna s’avvicini veramente e concretamente a quello che, alla fine, succederà davvero.
Che cosa resterà di “Game of Thrones”
L’eredità di “Game of Thrones” è questa: alimentare le curiosità, le aspettative; alimentare un racconto che è sempre andato oltre il piccolo schermo e la messa in onda, che ha trovato un suo pubblico (ed è un pubblico, bene inteso, enorme: “Game of Thrones” è la serie più piratata di sempre, la più famosa e vista di Hbo), e che ha prosperato anche quando, come nell’ultimo anno, non è andato in onda nessun episodio. Lo dicono i numeri, quanto “Game of Thrones” sia stata importante. Lo dicono i fan. Non è un’esagerazione definire questa serie come un punto di svolta all’interno della storia del piccolo schermo; e non è nemmeno un’esagerazione dire che, da oggi in avanti, sarà un obiettivo e una sfida per tutti gli altri produttori e canali. “Game of Thrones” è, e rimarrà ancora per molto tempo, la dimostrazione che non sono solo l’offerta economica o il brand di chi la propone a contare; è la dimostrazione che la qualità ha molto, molto valore in un mercato sempre più saturo, ed è anche la dimostrazione che non è un genere a definire il successo o la fortuna di una serie tv. “Game of Thrones”, dopotutto, non è mai stata solo un fantasy, e non si è mai rivolta solo ai fan del fantasy. “Game of Thrones” si è affermata come una serie per tutti, rivolta a tutti, con uno o più elementi vicinissimi a qualunque tipo di pubblico, ed è questo che significa, oggi, mettere in scena una storia senza tempo, per tutte le generazioni, che rimarrà nel tempo.Quella che è chiesta a quest’ultima stagione è una prova importante: non deludere le aspettative; non distruggere tutto il lavoro che è stato fatto. È una grande scommessa. Che se sarà vinta farà di “Game of Thrones” non solo la serie più attesa, seguita, amata, piratata e – allo stesso tempo – criticata di sempre; ma anche l’incarnazione perfetta, esemplare, di cosa vuol dire “racconto seriale”.
Gianmaria Tammaro, Lastampa.it