“Non mi sono fatta mancare niente”, ammette Marina Ripa di Meana. Poi la scoperta del tumore, il pensiero del suicidio e un salvatore: Umberto Veronesi
La aspetti in salotto. Libri, quadri, sculture, tavolini. Le finestre su questa via a due passi da San Pietro. Una teca con delle scarpe rosa, di cera. E, al di là della porta a vetri, le mensole strapiene di scarpe col tacco, uno scaffale stipato di cappellini. I suoi cani, i quattro carlini. Marina Ripa di Meana arriva sui tronchetti rossi, sorride, si siede sul divano con le gambe lunghe lunghe. Sospira: «Eh, quelle sono cose che succedevano allora, verso la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, in una Roma ormai sparita. Una città in cui tutto poteva accadere, anche che una ragazza senza una lira, da sola con una figlia, visto che il mio ex marito non mi aveva dato niente, a parte quel famoso nome, Lante della Rovere, che poi mi voleva pure togliere, ecco, che una ragazza così potesse finire a vivere al Grand Hotel». Dove quasi ogni giorno si intratteneva, a pranzo e in chiacchiere, con due amici come Goffredo Parise e Alberto Moravia. La Roma e l’epoca che Marina Ripa di Meana racconta nel suo nuovo libro, Colazione al Grand Hotel, che esce domani per Mondadori (come il precedente, Invecchierò ma con calma).
Come arrivò al Grand Hotel?
«All’epoca lavoravo nella moda, quindi vedevo e incontravo un po’ tutti. Un giorno, nella villa dei Thyssen a Gstaad, in Svizzera, incontrai Roberto Gancia. Io uscivo da una storia tormentata col pittore Franco Angeli, Gancia era giovane, bello e anche ricco. Cominciai una storia con lui».
Dove viveva?
«In una villa sull’Appia Antica, della ex moglie di Carlo Ponti. Ero ospite del pittore, che però non pagava l’affitto. Un giorno la proprietaria piombò in giardino e fece una scenata: così il nuovo innamorato mi invitò a trasferirmi al Grand Hotel, ospite sua. Insomma vivevo lì da miliardaria, senza avere una lira. E mi annoiavo pure, se non fosse stato per questi due simpatici marpioni che venivano quasi sempre a colazione da me».
Che cosa facevate lei, Parise e Moravia?
«Chiacchieravamo fra noi tre, con complicità. Pure loro erano ospiti del signor Gancia, credo non abbiamo mai lasciato nemmeno una mancia. Poi andavamo in giro per Roma, facevamo acquisti nei negozi, mi davano anche consigli per il mio atelier».
Come conobbe Parise?
«La prima volta che mi vide, mi disse: Che meraviglioso dentino. Avevo i denti molto separati, e un po’ lunghi. Mi sorprese: in una ragazza così esuberante, alta, con quei capelli, bellona, notò il dente. Lui amava le imperfezioni. Moravia lo incontrai al bar Rosati. Ci venne incontro questo uomo un po’ zoppicante, di fretta come sempre».
Che impressione le fece?
«All’inizio un po’ così, perché parlò subito male della moglie, Elsa Morante. Era molto rancoroso con lei. Poi però piano piano mi conquistò, lui era così del resto, ti conquistava con il contrasto tra la sua durezza e il suo candore da uomo ingenuo. Così come era tirato coi soldi, ma molto generoso nella vita e nei sentimenti».
E di che cosa parlavate?
«Non di letteratura… Un giorno raccontai ai miei amici che avevo ricevuto una proposta dalla editrice di Playman per posare nuda. Mi aveva offerto un bel gruzzolo, ma io dissi: I miei genitori morirebbero. E Parise: Marina, ma perché no? Dai, ti scriviamo un pezzo, così indori la pillola».
Così fecero?
«Sì, scrissero una lettera-introduzione su di me. Dopo qualche giorno in aereo incontrai Eugenio Scalfari, che venne a dirmi, orripilato: Ma questi due grandi scrittori non hanno niente di meglio da fare?. Era schifato».
Non avevano pregiudizi?
«Assolutamente no. Era questa la gran bellezza. Avevo letto tre libri, ma per Goffredo avevo una intelligenza unica, perché non scimmiottavo i finti colti. Del resto, dicevano, non c’è niente di peggio dei cretini intelligenti. E io fra me pensavo: io sono solo cretina…».
Incontraste anche Liz Taylor.
«Era tutta profumata, la scia si sentiva fino all’entrata. Parise si tappò il naso: Che orrore, preferisco l’odore di ascella. Quello sì che è sexy. E io: Ma che dici?».
Conosceva la Taylor?
«L’avevo incontrata a Gstaad, a casa di Piero, il fratello del mio benefattore. Indossavo un abito nude look, e lei: Sei troppo nuda, gli uomini preferiscono spogliare. Al Grand Hotel invece avevo un golf nero a collo alto e pantaloni neri, così mi disse: Non c’è misura, too dark, troppo scura…».
E con Elsa Morante come andò?
«Con me era un po’ prevenuta, credo. La prima volta che mi vide, al ristorante La Carbonara, io arrivai in ritardo e già questo la irritò. Disse: Tutto qua, questa Marina?».
E lei?
«Io zitta, ma l’ho detestata. Però quando ti raccontava qualcosa ti incantava. Poi magari ridiventava brusca all’improvviso».
Che rapporto aveva con Moravia?
«Elsa parlava male di Alberto, e Alberto parlava male di lei. Litigavano… Anche io litigavo con quel pittore, a volte ci picchiavamo e uscivo di casa con un occhio nero. E Alberto: Ah, questo non è niente rispetto alle botte fra me e Elsa».
Ma adesso una cosa del genere non si potrebbe neanche dire.
«È vero. Però allora era diverso, erano botte da innamorati, ci si picchiava l’un l’altro. Anche se ho vissuto momenti drammatici: il mio primo marito era violentissimo, poi l’ho lasciato».
Quando ha conosciuto il suo secondo marito, Carlo Ripa di Meana?
«Era il ’76, a Venezia. Organizzava la famosa Biennale del dissenso, con artisti disobbedienti dall’Europa dell’est. Mi piacque subito».
Che cosa le piacque?
«A parte che aveva una faccia di una bellezza rara, e a me sono sempre piaciuti gli uomini belli… E poi il lavoro eccitante da presidente della Biennale: a casa sua a Venezia passavano tutti gli artisti. Aveva intorno donne a grappoli. Non poteva non piacere».
Parise non approvò, all’inizio.
«Diceva che non amava i politici, perché sono tutti cretini. Mi fece una scenata: Non è da te, tu che vivi fra Schifano, Festa, Angeli. Però Carlo non è mai stato un politico vero, si è occupato sempre di cultura, di ambiente. Io comunque non avrei mai potuto sposare un avvocato, anche se sono figlia di un avvocato».
Alla fine Parise e Moravia furono suoi testimoni di nozze. Quello di suo marito era Bettino Craxi.
«Anche lui una persona sorprendente: burbero e tagliente ai confini del cinico; dall’altra parte però era affettuoso e poi aveva questa cosa, molto siciliana, dell’amicizia. Veniva spessissimo a colazione a casa mia, ma al telefono diceva solo: Forse passo, perché già allora temeva le intercettazioni. Diventammo molto amici».
Che cosa le piaceva di Craxi?
«Mi affascinava. Era un vero leader. Parlavamo dei nostri problemi coi figli. Litigavamo a volte, e gli dicevo che era un gran cafone. Però sono convinta che sia stato un grande, un grandissimo leader».
E Agnelli? Le faceva la corte?
«Ma no. Non l’ho mai frequentato. Un giorno venne al nostro tavolo, al Grand Hotel e mi disse: Ieri sera ti stavo guardando in tv, mi facevo delle gran risate, quando è entrata Marella e mi ha rimproverato: perché segui queste sciocchezze? Mi hai fatto litigare… Poi si girò e andò al tavolo con Kissinger, che lo aspettava».
Insomma non ci fu flirt?
«No. Ho sempre avuto poca attrazione per lui. Ti chiamava all’alba, quando dormivo… E poi sapevo dalle mie amiche che era tirchio, dovevi pagarti anche il biglietto aereo».
Pare che l’abbia definita la donna più bella del mondo.
«Sì, lo dicono, ma a me non l’ha mai detto. Invece una volta andai a pranzo da Bettino con Carol Alt, all’epoca del film da I miei primi quarant’anni, e quando mi salutò lui mi disse: Preferisco l’originale».
Ha avuto tantissimi amanti: Jannuzzi, Pecci Blunt, Polanski…
«Sì, non mi sono fatta mancare nulla. Allora sembrava tanto impressionante, ma oggi, se vedo le giravolte dei ragazzi delle mie nipoti, io ero un’educanda».
Il femminismo che cos’è?
«La fissazione, di alcune, che le donne debbano essere superiori per forza. Quella roba trita e ritrita che ci hanno raccontato per anni, e che detesto. Tutt’altra cosa dalla femminilità, che è una grazia particolare».
Le femministe l’hanno sempre un po’ snobbata.
«Eravamo in contrasto. Io lavoravo nella moda, quindi avevo una certa immagine. Loro avevano quei pantalonacci… Mi chiamavano signorina grandi firme. Poi però, quando erano in crisi coi fidanzati, venivano da me per i vestiti, le gonne, i tacchi».
Ma lei è un po’ provocatrice?
«Me l’hanno sempre detto. Me lo rimprovera soprattutto mia figlia Lucrezia: se non provochi, non ti diverti. Ma poi si cambia… E comunque non lo faccio in modo studiato».
Perché piace così tanto?
«Che ne so. Penso perché vedono una persona normale, vera, con una vita un po’ particolare, e che non si è mai tirata indietro nel raccontarsi, senza farsi sconti. Ho raccontato tutte le batoste e le miserie che ho, e ho avuto. Poi sono straparlata e malignata da così tanti anni».
A proposito di anni, è sposata con suo marito Carlo da 34…
«Sì, sono stata molto fortunata in questo matrimonio. Lo rifarei».
È gelosa?
«Da giovane sì, facevo scenate in pubblico. Oggi litighiamo per la politica, uno vota sì, l’altro no; Carlo è trionfante per la vittoria di Trump, io invece non avrei votato né lui né Hillary… Cose così».
È fedele?
«Fedelissima. Perché considero la fedeltà un fatto di testa, non carnale. Non ho mai avuto tanta considerazione, stima e fiducia come per mio marito. In questo senso sono stata la donna più fedele del mondo».
Dice bugie?
«No. Sono tremendamente sincera, al punto da buttarla lì da sfacciata. È un alibi anche quello: nascondi tante cose».
I soldi?
«Non hanno importanza. Contano nella misura in cui non puoi farne a meno. Non mi manca nulla, ma non ho nulla: ho venduto tutto. Detesto quelli che accumulano. Io non lascerò niente in eredità a nessuno: i figli devono lavorare e pensare a se stessi».
Delusioni?
«La più grande l’ho avuta dal mio stesso corpo. Mi consideravo sanissima e invece mi ha tradito. Quindici anni fa, all’improvviso, ho scoperto di avere il cancro: è stato il tradimento più grande della mia vita».
Nel suo libro precedente racconta che aveva pensato anche al suicidio, di buttarsi nel Tevere da un ponte.
«Avevo appena visto mia sorella morire di cancro, se n’era andata in un mese e mezzo. L’idea di soffrire anche io così… Pensai: mi butto, meglio farla finita subito. Fu un attimo, un momento di tentennamento. Mi ha salvato Roma, la vista di tutta la sua bellezza in una giornata di sole. E una telefonata, proprio in quel momento, di Umberto Veronesi».
Che cosa le disse?
«Mi diede grande coraggio. Mi disse: Dai Marina, facciamo un’operazione, che vuoi che sia. Sono quindici anni che mi curo, grazie alla scienza. Ci sono stati momenti di sconforto, ma non mi sono mai affidata a certi pseudo stregoni. Veronesi era un caro amico, un altro grande uomo che se ne è andato».
È vero che era innamorata di Pannella?
«Innamoratissima. C’era un periodo in cui stavo sempre sotto il suo albergo, tampinavo il portiere. A un certo punto rispose al telefono e mi disse: Ma basta, vai un po’ a quel paese… Poi siamo diventati molto amici, ma gliel’ho sempre rinfacciato. Anche tre giorni prima che morisse: Marco, mi hai mandato a quel paese. Sorrideva».
Ha rimpianti?
«Non ho mai fatto in tempo. Sono sempre impegnata a inventarmi qualcosa di nuovo. Ho anche poco tempo per le nostalgie. E poi sono sempre pronta ad ammettere i miei tanti sbagli».
Quali sbagli?
«Beh, per esempio quelli per cui molti mi considerano provocatoria, esagerata. Però me ne sono fatta anche un vanto, una bandiera: ho sempre esorcizzato così, dicendo che sono maleducata e selvaggia. Ma sa soprattutto che cosa mi piacerebbe?».
Che cosa?
«Che tutto sia visto nella giusta ironia. È questo che conta. Non ci pigliamo troppo sul serio…».
Eleonora Barbieri, il Giornale