(di Tiziano Rapanà) La nube della polemica non mi tange. Si ciancia inutilmente di food blogger. Ossia la categoria del web, formata per lo più da baldi giovani manducatori per vocazione a favore di telecamera. Sono tecnologicamente autarchici: si scrivono, dirigono e montano il programma che li vede principi supremi. Consigliano ristoranti, trattorie e pizzerie sui loro canali YouTube, Instagram e TikTok. Molti li guardano con la lente dell’ubbia. per costoro, sono una masnada di palancai: buoni a tessere una tela di lodi sperticate in cambio di vile pecunia. Non è così, sono bravi ragazzi che si danno da fare. Il problema è che alcuni di loro non sanno mangiare. Vedo sul web adoratori passivi del tutto mangiante, che circonda lo scibile umano: mirano l’oggetto amato allo stesso modo di un antico egiziano innamorato della sublime magnificenza di Nefertite, la regina del Nilo. Loro assicurano la suprema bontà del manufatto gastronomico. Il loro sguardo e la ripresa filmica sul prodotto sono efficaci all’esercizio della persuasione. Non sempre il prodotto fa parte del prodigioso mondo della ghiottoneria. Non è il caso di costruire delle aspettative. Ciononostante non si può fare una colpa e soprattutto non ci si può immettere subito nell’autostrada dalla malevolenza. Semmai non capisco il pullulare di aspiranti critici su YouTube e affini. Qui urgono cronisti, raccontatori di realtà gastronomiche legate al territorio. I food blogger dovrebbero informare delle tradizioni culinarie del proprio paese.