L’attrice racconta sul filo dell’ironia la sua vita da insicura: “Mi sento inadeguata nei rapporti. La scuola? È un ricettacolo di dolori”
Dice Veronica Pivetti che Mai all’altezza è un titolo che le piace, perché gioca sull’aspetto fisico, l’altezza che la tormenta fin da quando, bambina, spiccava «come un campanile» nelle fotografie di classe e insieme sulla sua insicurezza, dichiarata perché, spiega, «dirlo è molto meglio, sei già a metà del lavoro». È quello che l’attrice fa nel suo nuovo libro, Mai all’altezza appunto (pubblicato da Mondadori), racconto autobiografico a partire da uno spartiacque: l’incendio che due anni fa ha distrutto la sua casa, un appartamento in affitto nel centro di Roma.
«Adesso ho il 41 di piede e sono un metro e settantacinque, ma ho 52 anni. Quando ne avevo 7 ero fuori misura: allora non era usuale, né facile, che una bambina fosse così alta. Del resto per me erano normali tante cose, che per gli altri non lo erano: di qui il sentirmi fuori posto».
Come lo affronta?
«È anche il mio carattere, che cerca sempre l’autoironia, oltre all’ironia: sono contemporaneamente sicura e insicurissima di me; molto sicura professionalmente, mentre di quello che sono… non lo so, mi sento molto insicura e inadeguata nei rapporti con gli altri. E sospetto che tutti siano così».
Come ci si rende conto dell’inadeguatezza?
«Attraverso le difficoltà, anche piccolissime, della vita quotidiana. Soprattutto da bambini, perché la vita si forma lì: l’adolescenza è dentro di noi, dai 18 anni in poi è tutta una fatica per risolvere i problemi accumulati».
Che problemi?
«Io ho avuto una vita bellissima, piena di belle cose, nessun grande dramma. Ma le piccole mancanze, che abbiamo avuto tutti, a cinque o sei anni sembrano insormontabili. Se entro in un ambiente ho paura di essere derisa, perché mi è capitato a cinque anni, con delle amiche. E ancora ho a che fare con quella fragilità lì».
È un po’ da analisi?
«Sì, ho fatto questo percorso. Il mio primo libro, Ho smesso di piangere, era sulla depressione, però si trattava di un problema circoscritto, dovuto a una malattia. In ogni caso non ho abbandonato quel percorso e, ridendo e scherzando, mi sono molto analizzata. Sapere è meglio che non sapere. Ci sono cose che ti segnano la vita».
Come l’incendio della sua casa?
«Un momento catartico. Non puoi minimizzare: la casa che va a fuoco, con tutte le cose dentro. Perdere tutto non può essere una sciocchezza. Un minuto prima hai tutto, un minuto dopo niente: ecco, per me ci sono una vita prima e una dopo, e anche una rinascita».
In che senso una rinascita?
«Fai i conti con quanta inutilità ci circonda. Viviamo zavorrati. Certo, dopo l’incendio ero eccessivamente libera… È un’esperienza che mi ha costretto a rivalutare le cose: non è teoria, è grande pratica».
Per esempio?
«Ora impiego un sacco di tempo a decidermi di comprare qualcosa. Mi dico: ma che cosa lo compro a fare? Tante delle cose che avevo le ho ritrovate su eBay, tranne il poster di Lindsay Kemp, quello che avevo comprato a 16 anni dopo avere visto Duende. Uno spettacolo che mi ha folgorata».
E il poster?
«L’avevo anche incorniciato, mi ha seguito in tutti i traslochi. Era il mio manifesto. Quando sono entrata nella casa distrutta, fra le macerie, e ho visto l’ombra della cornice tatuata sul muro mi sono detta: no, quello no».
Come è finita?
«In modo pazzesco. Ho raccontato l’accaduto in una intervista, l’assistente di Kemp l’ha vista e l’ha letta a lui, il quale mi ha scritto e mi ha spedito alcuni suoi disegni con dedica. Mi ha commossa. Come una favola a lietissimo fine».
Si sente fortunata?
«Posso non dirlo? Molti la depressione la tengono nascosta, invece nel mio primo libro l’ho raccontata. Ora questo libro è stato una gioia, anche se scavare dentro è impegnativo. Vorrei che la gente si immedesimasse, perché a tutti è capitato: esclusi, imbarazzati, rifiutati siamo stati tutti. E poi volevo anche fare ridere la gente».
Far ridere le piace?
«È la cosa che mi interessa di più. A teatro, nei film, in tv: mi fa sentire appagata, è una cosa che mi gratifica».
Nel libro racconta anche le sue esperienze a scuola. Molto diverse da quelle di Provaci ancora Prof, la serie di cui è protagonista da un po’ di anni.
«Eh sì. La scuola è il ricettacolo massimo di dolori. Ma il bello di recitare è che fingi una sicurezza e un ruolo che nella vita non avresti mai. Non sono Camilla Baudino, la Prof, anche se ormai siamo un po’ siamesi: siamo alla settima stagione, ho campato tanto con questa signora, però è un ruolo».
Nel libro invece è sincera?
«Un mio amico microfonista mi ha detto: Ma eri davvero così?. Io voglio dire come sono. È esibizionismo? Sì. Sono come una bambina, in questo non sono cresciuta».
È vero che voleva diventare una ballerina?
«Sì, perché ride? Ero brava. Tutte le bambine della mia generazione volevano fare le ballerine e tutti i bambini il vigile».
Il vigile?
«Sì, per quelli della classe ’65 il sogno era il ghisa. Per le bimbe la ballerina. Ero portata. La mia insegnante parlò coi miei genitori per mandarmi alla scuola della Scala. E lì i miei non se la sono sentita di prendersi una responsabilità del genere, avevo sette anni. Li ho amati e odiati per questo, magari sarei stata felicissima, ma è andata così».
Lei e sua sorella Irene…
«Siamo veramente molto diverse. Ma credo, e penso valga anche per lei, che ci sia un tale bene, un tale amore fra noi, per cui ci sono anche grande stima e ammirazione. Anche se probabilmente non condividiamo quasi nulla, e abbiamo opinioni totalmente diverse, ma chissenefrega».
Siete così diverse fin da piccole?
«Una volta siamo andate in vacanza a Civenna per quindici giorni, senza i genitori. Che poi, dov’è Civenna? Chi lo sa. Comunque mia sorella era diventata subito il capo di una banda di maschi, giocava, si divertiva, dava ordini. Un ragazzino le disse: Sei silenziosa come un indiano. Il massimo come complimento. Io una sfigata… Alle sei ogni pomeriggio piangevo perché mi mancavano il papà e la mamma. Lei non ha versato neanche una lacrima. E fra noi ci sono solo ventidue mesi di differenza».
Avete sempre avuto un buon rapporto?
«Abbiamo una conoscenza grandissima una dell’altra, approfondita dopo i 13 anni. Prima dei 13 anni io volevo sempre giocare, lei mai. Poi abbiamo iniziato un periodo di grande confronto, facevamo dei tè di tre ore nel pomeriggio, a parlare dei massimi e minimi sistemi. Ci ha formato, perché è bello parlare con persone intelligenti. E lei è molto intelligente».
Sua sorella ha detto che è un peccato che lei, Veronica, abbia abbandonato la pittura.
«Posso dire? Ha ragione. Ho frequentato il Liceo artistico, poi l’Accademia di Brera. Ho preso lezioni per anni da un pittore, in parallelo al doppiaggio, che ho cominciato a fare a sette anni. Poi, dopo una crisi forte ho smesso».
Invece lei ha detto che è un peccato che sua sorella Irene abbia lasciato la politica.
«Sì. Non condividevo il suo partito, ma so che persona è lei, e lei è di statura. E poi era giovane, prometteva molto. Entrambe ci rammarichiamo dell’altra: quando ci si vuole bene, capita. In fondo sono complimenti».
Sua sorella era più coraggiosa?
«Da piccola lei era un leone, io un po’ pavida. Avevo paura di espormi. E poi ero molto pigra. Due cose che si sono volatilizzate con l’età: ora per mestiere sono esposta al massimo, e sono iperattiva. Adoro lavorare, lavoro sempre, la radio, la tv, i film, i libri. E adoro lavare i piatti».
È vero che è poco competitiva?
«Il fatto è che so dove funziono, e dove no. Trovo che gettarmi nella mischia a tutti i costi sia inutile. Nel lavoro penso: se interesso io, prendono me. Forse è sbagliato, forse è presunzione. Comunque diventa una vita di inferno, se vivi sgomitando».
La sua svolta, professionalmente parlando, è arrivata a metà anni Novanta, con Viaggi di nozze di Verdone.
«Sì, prima avevo lavorato con Fazio, a Quelli che il calcio. Poi il battesimo, in pompa magna, con Verdone. È stato il mio periodo spensierato: è arrivato questo regalo della vita, nelle sembianze di Verdone. Certe cose capitano. Avevo 29 anni».
È figlia d’arte?
«Papà è stato un regista teatrale e pubblicitario, mamma una attrice per anni. È un mestiere che conosco e che ho sempre visto come quotidiano, normale: non ho mai subito il fascino del dorato mondo, anzi, vedevo i miei genitori soffrire per questo lavoro».
È vero, come dice nel libro, che con un padre divino una figlia femmina è spacciata?
«A quell’età, per una femmina, il padre è una fregatura cosmica. Magari avessi cercato uomini come lui, è che proprio mi dicevo: è inutile cercare. Ancora più grave. Ho un grande rammarico: mi sarei dovuta emancipare prima».
In che senso?
«Avrei dovuto svegliarmi dieci, vent’anni prima. È che stavo così bene nella mia famiglia che per me era difficile andarmene via. Non per i soldi, parlo di legame mentale. È la fregatura di avere genitori in gamba, parlo anche di mia madre ovviamente».
Altri rammarichi?
«Rimpiango di avere fatto tutto troppo tardi. Anche se è sciocco. Però avrei voluto essere più ardita, più temeraria da giovane. Invece avevo il lavoro di doppiaggio, bello tranquillo, in un settore che per me era come casa mia… Forse se mi fossi staccata prima avrei fatto cose diverse, magari la danza o altro, comunque più esperienze».
Fa sempre commedie?
«È roba che si spera ti riesca bene, così ti chiamano. Certo farei altri ruoli, ci sto ragionando da anni. Diciamo che è una condanna molto piacevole. A una proposta opposta non direi di no».
È vero che con i maschi ha chiuso?
«Dobbiamo proprio parlarne? Non è che non sia interessata, sono loro che non sono interessanti. Quello che una donna fa a 20 anni, loro lo fanno a 40. Sono mediamente immaturi, anche loro malgrado: questo Paese ha una struttura sociale per cui il maschio non deve fare nulla per dimostrare qualcosa».
Istinto materno?
«Per niente. Ce l’ho con i miei animali, con i bambini no. Perciò non mi do colpa. Non so se lo scriverà, ma per me non c’è paragone fra un vagito e l’abbaiare di un cane. Il rapporto con l’infanzia è questo: non mi interessa. E infatti non ho fatto figli. Anche se amo moltissimo i miei nipoti».
È religiosa?
«Sì, cattolica. Ho frequentato fino ai 30 anni; da allora non sono più praticante. Certo se arriva una benedizione non mi scanso».
Ha studiato dalle suore?
«Solo suore ho visto nella mia vita. Il terzo libro lo scrivo sulle Orsoline: il liceo è stata una esperienza difficile. Ho studiato e imparato molto in quella scuola ma, umanamente, un ambiente e delle ragazze tremende».
Si chiama davvero Veronica per la canzone di Jannacci?
«Sì, nel ’65, quando mia mamma era incinta, lui cantava a Milano nei locali, con la sua chitarrina. Un grandissimo autore, mai celebrato abbastanza: fra lui e Paolo Conte l’Italia dovrebbe essere così orgogliosa. E quella canzone è un capolavoro».
Veronica, «il primo amor di tutta via Canonica»…
«I miei sentirono la canzone e si dissero: se è femmina la chiamiamo Veronica. Sperando che faccia un altro mestiere».
È vero che mangia solo cibo spazzatura?
«Le dico solo questo. Un giorno mi ha chiamato una rivista di salute per una intervista. Quando ho spiegato come è la mia vita hanno detto di non essere più interessati. Se volete un modello da non seguire…».
Addirittura?
«Fritti, conservanti, zuccheri, grassi, pizza. Dica una cosa malsana, io la mangio. Zero palestra. Non bevo vino perché sono astemia, ma trovo l’acqua noiosissima. Così bevo Coca-Cola a tutti i pasti».
Beve solo Coca-Cola?
«Sì. La Coca-Cola è la più grande invenzione di tutti i tempi, insieme al telefono e alla ruota».
Eleonora Barbieri, il Giornale