L’inviato del Tg1 ha disturbi visivi dall’età di 7 anni: «Ho anche Parkinson e diabete». Ma ride con leggerezza delle proprie disgrazie: «Ignoro che cosa sia la depressione»
Oltre a essere buono come il pane, Vincenzo Mollica fa onore al suo cognome: è tenero quanto la parte più interna della baguette. Una pasta d’uomo. Al critico televisivo Aldo Grasso ha ispirato un neologismo: mollichismo. Il nuovo album di Giorgia? «Voce meravigliosa», «risultato splendido». Quello di Roberto Vecchioni? «Un vero capolavoro», «un bell’esempio», «un disco sorprendente». Lady Gaga alla Mostra del cinema di Venezia? «Acclamatissima, una delle star più attese, un concentrato di arte, eccentricità e grande senso della comunicazione».
Per l’inviato del Tg1 i divi sono tutti superlativi, insuperabili. Ma ciò non dipende dal fatto che negli ultimi cinque anni un glaucoma gli ha mangiato il 95 per cento del nervo ottico: in loro non scorge difetti perché li ha sempre guardati con un occhio solo, il destro, lo stesso che ora lo sta tradendo. «Dal sinistro», rivela, «non ci ho mai visto, a causa di un’uveite che mi colpì da piccolo, seguita da un’iridociclite plastica. Lo so, sembra una sciarada, però si chiama così».
L’aedo di cantanti e attori ride con invidiabile leggerezza delle proprie disgrazie. «Le mani che tremano? Quello è il morbo di Parkinson. Non mi faccio mancare nulla. Ho pure il diabete. Sono un abile orchestratore di medicinali». Nonostante la cecità quasi completa, insiste per venire ad accogliermi nel corridoio di Saxa Rubra e mi fa strada a tentoni fino al suo ufficetto semibuio. Sulla porta, un fotomontaggio: lui vestito da papa, benedicente, con il logo del Tg1 al posto della croce pettorale e la scritta «Sua Santità il signor Presidente».
Perché la chiamano così?
«Quando si eleggeva il Cdr, il ruolo di presidente della commissione di voto toccava sempre a me o a Massimo Valentini. Ci consideravano privi di padrini politici. Che signore, Massimo. È morto qui dentro, sul lavoro. Infarto. Alla fine di ogni edizione delle 20, bussava alla porta e mi salutava così: “Presidente, si cagorno!”. Tutte le sere. Non ho mai saputo che volesse dire».
I problemi di vista sono correlati alla sua ben nota indulgenza?
«Cerco solo il lato migliore delle persone. Non da pirata, con la benda sull’ultimo occhio che mi rimane. Da cronista. Evito di avvicinare chi non mi piace».
In questo momento che cosa vede?
«Ombre in un mare di nebbia. Più spesso non vedo un tubo, ma continuo a coltivare la speranza. Andrea Camilleri mi ha spronato a non abbattermi, a sviluppare gli altri sensi. Ignoro che cosa sia la depressione. Mi sostengono due pilastri: famiglia e lavoro. Nella vita non ho altro. Mai messo piede nei salotti. Prima scrivevo, leggevo, disegnavo. Ora mi tocca andare a braccio. Il mio nuovo libro, Scritto a mano pensato a piedi, s’intitola così perché sono aforismi che ho dettato a Siri».
Ne ho contati 62, di libri suoi. Tre in più di Bruno Vespa.
«Lo sa che non lo so?».
Uno, Mi ritiro dai miracoli, tirato in sole cento copie da un editore amanuense di Milano, Giuseppe D’Ambrosio Angelillo, che i libri li componeva da solo con calligrafia ornata, disegnando anche le copertine e vendendoli per strada.
«È morto un anno fa, Giuseppone, lasciando moglie e cinque figli. Lo conobbi a casa di Alda Merini. La poetessa, ormai incapace di reggere la penna, gli recitava al telefono le poesie che le sgorgavano dal cuore e lui le trascriveva».
È dura ridursi a sfornare solo rime?
«Omerico non fui per poesia ma per mancanza di diottria».
Bella.
«Sì, è dura. Ma alla fine, mi creda, ci si arrangia. E gli aforismi diventano il compendio della tua esistenza, alla maniera di Paolo Conte: “Come la lucertola è il riassunto del coccodrillo, così il tango può essere il riassunto di un’intera vita”».
Dovrebbe dettare le sue memorie.
«Me lo hanno chiesto molti editori. Prima che mi dimentichi tutto, lo farò. Sarà un libro di pagine bianche».
In che senso?
«Non parlerò mai di Federico Fellini, di Fabrizio De André, di Hugo Pratt, dei tanti che mi hanno donato la loro amicizia. Questa è la mia prima intervista a un giornale, e sarà anche l’ultima. Ho ceduto solo perché, dal tono della sua voce, ho sentito che potevo fidarmi».
La cecità incipiente come si annunciò?
«Se ne accorse la mamma. I miei genitori mi portarono da un oculista in Calabria. Avrò avuto 7-8 anni. Origliai la sentenza da dietro la porta: “Diventerà cieco”. Da quel momento adottai una tecnica: imparare a memoria tutto quello che mi circondava, in modo da ricordarmene quando sarebbero calate le tenebre. Come mi ha detto Andrea Bocelli, abbiamo avuto la vista lunga».
Con la sua patologia oftalmica, non dovrebbe essere già in pensione?
«Per carità! La Rai mi ha comunicato che resterò fino al 27 gennaio 2020. Ogni giorno mia moglie Rosa Maria mi porta qui alle 9 e viene a prendermi alle 19».
Come fu assunto?
«Dal 1977 lavoravo a Tele Amiata, emittente di Montepulciano. Nuccio Fava e Albino Longhi, l’unico ad aver guidato per tre volte il Tg1, mi segnalarono a Emilio Rossi, il primo direttore, gambizzato dalle Brigate rosse. Mi convocò per un colloquio. Aveva idee futuribili sulla tv. Mi assunse il 25 febbraio 1980. Due giorni dopo prese Enrico Mentana».
Enzo Biagi la volle a Linea diretta.
«Unico requisito: la mia giovane età. Quello che so, lo devo a lui. Era uno specialista nell’insegnarti senza insegnare. Il primo incarico fu intervistare Paulette Goddard. Mi diede un numero di telefono. Rispose una donna, credevo fosse la colf: “Di che vorrebbe parlare con la signora Goddard?”. E io: di Tempi moderni, di Charlie Chaplin. Chiacchierammo per un po’. Alla fine m’impietrì: “Non do interviste, il signor Biagi lo sa”. Andai da Enzo con le orecchie basse: è stata lei a fare il terzo grado a me, dice che non parla con i giornalisti e che la cosa ti è nota. “Certo”, rispose Biagi, “ma nelle interviste bisogna cominciare da Dio. A scendere si fa sempre in tempo”».
Almeno le restò il numero della diva.
«Un giorno Lello Bersani, il primo cronista ad aver raccontato il mondo dello spettacolo al telegiornale, mi mise in mano la sua agendina: “Vedo in te il mio erede. Copia i nomi che ti servono”. Li trascrissi tutti sulla rubrica che uso ancor oggi. Morti inclusi, da Roberto Rossellini a Totò: non si sa mai. Infatti, il giorno che dovetti fare un servizio su Anna Magnani, chiamai il numero dell’attrice scomparsa e rispose il figlio Luca».
Sia sincero: è capace di arrabbiarsi?
«Altroché. Con me stesso. Come quando, nello speciale per i 70 anni di Alberto Sordi, dimenticai di chiedergli la genesi della battuta “Lavoratoriii!” nei Vitelloni, accompagnata dalla pernacchia e dal gesto dell’ombrello».
Mai mandato qualcuno a quel paese?
«Con parsimonia, però sempre in maniera diretta. Anche perché da Fellini ho imparato che bisogna calcolare bene i tempi di un addio o di un vaffa. “Se lo sbagli di un solo secondo, ti si potrebbe ritorcere contro”, mi spiegò Federico».
Come prepara le sue interviste?
«Non le preparo. Devo solo sapere tutto su chi ho davanti. Per il resto, basta il dialogo schietto. Ricordo che a Cannes ero l’ultimo in una lista d’attesa di inviati da tutto il mondo per avvicinare Diane Keaton, che presentava il film Heaven. Mi ricevette dopo tre ore. Stremato, le chiesi di potermi servire al buffet. Fece portare il tè e prese a raccontarmi della sua relazione con Woody Allen, di cui non aveva mai parlato. Per fortuna l’operatore filmò l’intera conversazione. Alla fine mi alzai per salutare. “E l’intervista?”, si stupì lei. Ha già detto tutto, risposi. “In effetti è la migliore che ho dato oggi. Può usarla. Ma non mostri troppi pasticcini”».
Ha seguito 38 edizioni del Festival di Sanremo. Mi spiega perché piace tanto?
«È una festa nazionale, come il 2 giugno. Unifica l’Italia. Lo guardano anonimi e vip. Luchino Visconti andava a vederlo con la Magnani a casa di Lello Bersani».
Il miglior presentatore della gara?
«Resterà sempre Pippo Baudo».
C’è qualcuno che non s’è lasciato intervistare da Mollica?
«Solo due: Bob Dylan e Mina».
Com’è finita con Piero Pelù che le infilò un preservativo sul microfono?
«Che siamo diventati amici. Capii l’intento sociale del suo gesto. Solo i cameramen si arrabbiarono con il rocker».
Per quale motivo il suo fan Fiorello sta a lungo lontano dalla tv?
«Fiore è un genio nell’arte della sorpresa, come Celentano. In questo periodo conduce Il Rosario della sera su Radio Deejay. Ogni mattina mi chiama e mi fa recitare le frasi dei rapper: m’è partita la sciabarabba; batti il cinque; questo spacca. Le manda in onda a sorpresa fra le 19 e le 20 e poi è così gentile da spiegarmele. Non sapevo che sciabarabba significasse la perdita di lucidità mentale».
Albino Longhi mi diceva che togliere un giornalista dal video equivale a ucciderlo. Varrebbe anche per lei?
«No. Io non vivo di video. Il mio unico desiderio è raccontare ogni sera una storia. Per i primi sette anni gli spettatori del Tg1 non mi hanno mai visto. Ero un fantasma. Fu proprio Longhi a impormi di apparire qualche volta di sguincio».
Davvero ha chiesto di far scolpire sulla tomba l’epitaffio «Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica»?
«Certo, è un desiderio che mia moglie dovrà rispettare. Al cimitero guardo gli ovali sui loculi e capisco che nessuno dei defunti ha scelto la foto per la lapide. Il cronista Paperica, inventato da Andrea Pazienza e Giorgio Cavazzano per Topolino, mi rappresenta come nessun altro».
Stefano Lorenzetto, Corriere.it