Filippo Uttinacci, in arte Fulminacci è diventato in pochissimo tempo uno dei cantautori più apprezzati dell’ambiente. Dopo l’ottimo riscontro di pubblico e critica attorno al primo album “la vita veramente”, il cantautore ha pubblicato “canguro”, il nuovo singolo che fa da anteprima al suo secondo lavoro.
Filippo Uttinacci, in arte Fulminacci è diventato in pochissimo tempo uno dei cantautori più apprezzati dell’ambiente. In un momento storico in cui i generi sono sempre più diluiti, in cui i synth sono diventati un must e la retromania anni ’80 fondamentale, il nuovo cantautorato sta cercando i suoi nuovi alfieri, quelli che possono seguire le orme di artisti come Brunori o Calcutta,
Vasco Brondi e Motta (anch’essi giovane, ma già tra i veterani), e cercando strade alternative a uno come Gazzelle, che con Fulminacci divide l’etichetta. Dopo un primo album, “La vita veramente”, celebrato dalla critica, che oltre alle capacità di Filippo ne ha soprattutto sottolineato la vena derivativa (Lucio Battisti, Lucio dalla, Daniele Silvestri), l’artista sta cercando strade nuove che, però, non ne sviliscano il passato. “La vita veramente” è un album che ci riporta alla definizione più classica (ed è un complimento) del cantautorato e mostra le tante capacità di Fulminacci, e “Canguro”, il nuovo singolo che anticipa il secondo album, è una possibilità che lui stesso si è dato di esplorare altri lidi senza perdersi. Il ritornello del brano è costruito attorno a un giro di basso ipnotico e a un testo che fluisce meno cervellotico, come ha spiegato lui stesso a Fanpage.
Ciao Filippo, come va? Sta cominciando una nuova avventura no?
Sì, adesso comincia una nuova avventura, nel senso che il disco comincia a uscire a piccoli pezzi con i singoli, però comincia una nuova avventura anche dal punto di vista del lavoro che sicuramente quest’anno ha cambiato un po’ la sua forma.
Canguro è stata scritta prima del lockdown, ma immagino che l’isolamento forzato abbia comunque influenzato qualcosa di questo lavoro, no?
In effetti sì, i pezzi sono stati concepiti prima dei giorni del Covid, però visto che avevo tempo da perdere a casa, sono stato molto attento a usare i miei tre arrangiamenti e le mie tre produzioni per arrivare in studio con un lavoro ancora più completo di quanto feci col del primo disco.
Quindi non ha influenzato i testi, ma solo il lavoro sulla produzione?
I testi no, perché la maggior parte delle cose le ho scritte prima della pandemia, solo un paio di cose le ho modificate dopo, ma facendo finta che il Covid non esistesse. Quel paio di cose di testo che ho aggiunto non sono state il frutto della mia esperienza di quarantena, però: ogni canzone ti fa entrare in un mood diverso e ti diverti a esplorare, a prescindere da quello che succede nella realtà, pure questo è il bello: ti diverti a vivere cose che non esistono.
Parlami di “Canguro”, quando nasce, dove eri, da quali immagini sei partito?
Canguro è una canzone nata in inverno, più di un anno fa, prima della pandemia. È nata in un pomeriggio invernale, ero al buio quando tutto è partito, se non sbaglio, da quel giro di basso che caratterizza il ritornello, quella discesa cromatica, tutti quei semitoni uno di seguito all’altro, quella cosa lì è stata la prima cosa a nascere. Mi sono divertito a suonare questa cosa e mi ha colpito che una cosa così elementare mi divertisse in quel modo, per questo ci ho solo aggiunto una cassa e basta: questo è il ritornello. Mi sono divertito dal punto di vista acustico, a cominciare dai suoni, e solo dopo ho aggiunto un testo che è uno dei pochi concepiti esclusivamente d’istinto. Ed è una cosa che mi piace: la caratteristica di molti miei testi è un utilizzo un po’ cervellotico della grammatica, che può essere anche stancante. Invece è bello distaccarsi da quello che ti è stato detto e dal modo in cui sei stato descritto anche perché mi piacciono tante cose diverse, non mi sembra divertente farne solo una.
Immagino che il primo album sia stato scritto in un arco di tempo più ampio, però con un’impronta che era quella del te stesso che volevi mostrare. Poi, però, si cresce e si cambia e forse anche questo continuo giudizio (positivo) che ti legava ai soliti nomi ti ha portato a questo cambiamento. Che influenza hanno avuto queste critiche nella ricerca di una strada nuova?
Nel momento in cui mi accorgo di essere paragonato a persone che adoro, al mio Olimpo, allo stesso tempo mi chiedo: ‘Io chi sono?’, nel senso che non sono solo questa cosa qui, non sono solo una cosa che ne ricorda un’altra, o almeno lo spero. È pure vero che anche io, quando mi vesto da critico, se devo parlare di un pezzo faccio paragoni, è inevitabile, quindi non posso pretendere che non sia fatto con me. Quello che dici è interessante, nonostante questi paragoni siano positivi, infatti, ti fanno riflettere sul fatto che forse tu non sei per forza quella cosa lì, perché quei paragoni potrebbero intrappolarti.
È anche una questione anche di gestione della popolarità, quindi?
Certo, il rischio di questa grande attenzione è la spersonalizzazione di te stesso, il fatto che se continuano a definirti tu potresti finire per non esistere più. È sempre giusto ricordarmi cosa mi piace e cosa voglio fare. Per fortuna lavoro con persone che me lo fanno fare.
Questa cosa mi porta a chiederti in che modo quella questione “derivativa” del primo album varia, adesso, anche perché derivativo o meno, quel Fulminacci eri comunque tu…
Parto da lontano, poi arrivo alla risposta. Il gradino di differenza tra i 17 e i 20 anni si sente: a 17 si è diversi rispetto a quando ne compi 21, poi forse la faccenda cambia meno, non so. Io mi rendo conto che fino a pochi anni fa, per molte cose, ero un cretino, ci sono cose che non capivo e ora capisco, cose che dicevo e pensavo che mi convincevano all’epoca e ora capisco quanto fossero ingenue, perché la mia è l’età in cui ci si responsabilizza per la prima volta.
Poi all’improvviso si cresce.
Sì, nel momento in cui le responsabilità arrivano – soprattutto nel mio caso, in cui ho fatto un cambio repentino di vita in poco tempo -, arrivano tutte insieme, così ho dovuto capire un milione di cose che non sapevo e non mi interessavano. Però questa cosa qua mi permette di far uscire un disco che parla di me oggi, anche se è un oggi datato, perché i testi sono scritti un po’ indietro nel tempo. Per tornare alla risposta, “Canguro” è il primo pezzo, quello che ho scelto per iniziare, però, non c’entra niente con il resto del disco. E ogni brano è abbastanza diverso l’una dall’altra, poche cose si possono ricondurre l0una all’altra se non per il fatto che le canto io.
Però anche nel primo album c’era una diversità di sensazione nei vari brani.
È vero, in questo caso ho provato un po’ a fare tanti esperimenti, spero che non mi si ritorcano contro, però mi sono divertito, ci sono canzoni che mi piacciono tanto e spero che anche le persone che mi ascoltano le apprezzino. E soprattutto non vedo l’ora di suonarle live.
Senti, “Salto come un canguro, trenta testate al muro” come nasce?
Nasce dal fatto che ho pensato queste cose e le ho scritte. Cioè, invece di riflettere sull’argomento da trattare ho semplicemente trattato l’argomento dei miei pensieri, quelli che ti attraversano la testa all’improvviso e ho scritto questa cosa qui: è una sorta di sfogo ed è un’altalena continua tra l’autoelogio goffo e l’autocommiserazione. Ci sono dei momenti nella vita in cui ci sentiamo superiori, anche a sproposito, e dei momenti in cui ci sentiamo non idonei, e magari non è vero e siamo semplicemente nel mezzo, e nella canzone ho detto tutto quello che mi è passato nella testa.
E poi come ci lavori sulla parola? Sei di quelli che lavora sulle assonanze, le rime: per dire, perché quelle testate sono trenta?
“Trenta testate al muro” non potevano essere nessun altro numero, non mi è mai venuto in mente di metterne venti. Però la cosa migliore per quanto riguarda l’assonanza è solitamente quella che mi viene prima delle altre, è proprio quella lì, per me ‘ste testate al muro non potevano essere un altro numero, “trenta” ha quella “t” dentale che funge da percussione, come la “z” fa da charleston.
Che fa il paio con quella cosa del basso che mi dicevi all’inizio…
Sì, probabilmente il testo compone il groove di batteria che è scandito solo dalla cassa in quattro nel ritornello, però il testo contiene delle “t”, delle “s” che possono essere gli altri pezzi della batteria che comporrebbero questo groove se fosse suonato da una batteria intera.
Senti, a proposito dell’intelligenza artificiale con cui avete costruito il design, nella nota stampa c’è la domanda “I computer possono sognare” che mi ha portato al Philip Dick degli androidi che sognano pecore elettrice, ma forse è solo una sovrainterpretazione…
Guarda non è un caso, nel senso che non sono un appassionato nello specifico, però è un argomento che probabilmente non finirà mai di essere in voga, perché è quello che riguarda noi umani e più andiamo avanti più quello è l’argomento, con la maiuscola. Le persone con cui ho lavorato, che sono i ragazzi di uno studio grafico di Roma, ho avuto questa idea di far sognare a un computer le mie canzoni, questa è la narrazione legata all’immagine scelta per questi singoli e per il disco. La cosa interessante è che lavorano con un software che mangia immagini, gli vengono date immagini che rielabora costruendone una nuova basata su… nessuna reference, ovvero creando un’immagine che non potremmo mai pensare e questo genera un effetto secondo me artistico. Su di me la copertina di Canguro genera sia inquietudine che interesse e questa è una cosa bella, secondo me.
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