Nel Barese è andato in scena il Rigenera SmartCity Festival: sul palco si sono alternati per tre giorni anche Ministri, Selton, Clementino
Con tre serate di concerti si è chiuso lo scorso weekend il Rigenera SmartCity Festival, culmine spettacolare di un progetto che negli ultimi anni ha ricostruito un terreno culturale e sociale a Palo del Colle, un paese di 18mila nella periferia della città metropolitana di Bari. Nicola Vero, un trentenne locale che parla piano ma ha una gran determinazione, ha rigenerato un asilo abbandonato, l’ha riempito di contenuti e di modi gentili e con un gruppo di ragazzi ha creato dal nulla, con una visione imprenditoriale e qualche aiuto dalla Regione, un modello sostenibile di aggregazione e condivisione locale che funziona. A questo modello, che nel pomeriggio ha continuato la sua attività di formazione e scambio, con conferenze e incontri sui temi delle periferie, si sono affiancate tre serate in cui –come un Festival deve fare per definizione- si sono alternate musiche completamente diverse. Buona occasione per calarsi dal vivo in alcune delle realtà italiane più attuali.
Due di loro, Motta e Cosmo, son saliti sul doppio palco la prima sera, e nella loro diversità mostrano due direzioni interessanti e diverse. Francesco Motta, toscano di 32 anni, multistrumentista, negli ultimi due anni ha vinto il Premio Tenco con la Miglior Opera Prima ‘La Fine dei Vent’Anni’, e poi ha bissato con il Miglior Album dell’Anno in assoluto con ‘Vivere O Morire’ (vien da chiedersi se i Sanremesi.alt prepareranno un premio apposta per il terzo quando sarà). E’ un modello di cantautore/musicista con amore per italiani (Bennato, Dalla) e stranieri (Violent Femmes, gruppo di punkrockabilly anni 80, e il post-punk dei Pixies). Ma è evidente che ci sono una serie di lezioni imparate lungo la strada: il modo di immolarsi sul palco di Jim Morrison o Iggy, quel tono semi-parlato di cantare trademark Lou Reed, e non a caso il sound di quello che definisce ‘il più grande gruppo di tutti’, ovvero i Velvet Underground: chi altro potrebbe aprire il concerto con una jam di un quarto d’ora di insistito quasi dronico, mid-tempo, ipnotico e distorto, il cui unico testo è la ripetizione di«’Ed è quasi come essere felice…Ed è un po’ come essere felice…»?
Motta, alto, magrissimo, capelli che inondano il volto (di fianco a me qualcuno dice «una faccia da Dario Argento»… ci sta), vestito all-black, scrive canzoni molto personali sulla solitudine, sulle relazioni, sulla madre e sul padre e su tutto quello che si chiama ‘crescere’. Sui dischi sembra davvero il cantautore da secondo millennio. Molto curati, un indie dolceamaro, più introspettivo che graffiante o disperato. Prodotti da Riccardo Sinigallia (Tiromancino, Frankie Hi-NrG) il primo, e da un giapponese ‘italiano’, Yakato Gohara (“un grande sperimentatore sonoro”) il secondo, sono belli, tesi, ma in fondo un indie-folk elettrico. Nulla a che vedere con l’impatto live. Le canzoni diventano ‘brani’, strecciati negli arrangiamenti, riempiti di suono e portati in una dimensione parallela (Del Tempo Che Passa La Felicità è un buon esempio). Ci sono altre jam potenti, di quelle che potrebbero andare oltre (Roma Stasera) e ci vanno, e poi ci sono momenti in cui si torna quasi-morbidi nel formato folk (La Nostra Ultima Canzone, Sei Bella Davvero).
Motta si muove freneticamente sul palco, un po’ come un animale in gabbia, su e giù, saltando e cadendo in ginocchio, arrampicandosi sulla batteria e volando via, incitando continuamente il pubblico sollevando le mani a ‘coinvolgersi’ non con gesti ieratici, consumati (alla Vasco, per intenderci) ma nervosi e spesso senza continuità, più un tic che una posa.
C’è pure un attimo di totale nonsense nel portarsi dietro i due chitarristi a suonare fra palco e prime file, in acustico, correndo più che camminando, per la gioia di quelli nel raggio di un metro: però ha humour (“ quelli là dietro che non han sentito niente sappiano che non han sentito niente neanche davanti…”) e la sua simpatia sta proprio nel non tirarsela, di essere il primo sapere che per ora è solo un progetto, fascinoso, e la strada da fare è ancora lunga, oltreché promettente: il suo “spero di non trovare mai il mio equilibrio musicale” è un buon vademecum da portarsi dietro, garantisce ricerca e movimento. L’ultima frase, nel backstage, “ Devo cominciare a scrivere cose nuove. Ma mi sa che non ci riesco. Sono troppo felice” (suppongo riferito alla sua fidanzata Carolina Crescentini) è invece una affermazione non banale. Si dice che si scrive meglio nel dolore e nella rabbia. Chi lo sa, magari il terzo-per-il-Tenco sarà un solare sabor tropical.
Ma con Motta siamo ancora in territorio di ‘canzoni’: strambe, strecciate, ma comunque ‘riconoscibili’. Con Cosmo questo si perde un pò di più: è interessato a destrutturare la forma-canzone, in modo fors’ancora più moderno, tecnologicamente parlando. Marco Bianchi, 36 anni, viene da Ivrea, dove forse qualche chip della fu Olivetti è rimasto a ronzare nel suolo come in un film post-atomico: Cosmo infatti ha sviluppato negli ultimi quattro anni (e tre album, se ha ancora un senso questa parola in un mondo musicale sempre più liquido) una doppia identità –una cantautorale e una elettronica- e poi le ha fuse insieme. Testi che hanno significati –anche qui spesso esistenziali, dalla nostalgia per casa a ‘mamma che ha lasciato papà’– intrecciati però con pulsazioni tecno che possono andare da line melodiche a pura trance, tosta e potente. Affiancato sul palco da due percussionisti, vestito di toni flou, capelli cortissimi e fisico compatto da rugbista, parte dalla mega-consolle e si aggira per il palco microfono in mano danzando leggero su una manciata di hit:
L’Ultima Festa, Quando Ho Incontrato Te, e la sua dedica d’amore a Ivrea, Sei La Mia Città.
Al centro del suo set manda via i compari e si esibisce in un mezz’ora di pura elettronica thump-thump, sofisticata e parecchio bombastica, forse più adatta al Pashà a Ibiza alle tre del mattino con spazio e una pista che ai sassi di Palo. Quando però non si fa prendere la mano dalla sua metà dj-istica, sicuramente crea una ‘canzone’ italiana, probabilmente ostica per i fan della tradizione, proiettata verso il futuro. Oddio, se qualcuno dei fan di Cosmo fosse stato in giro a cavallo fra 80 e 90 saprebbe che in quell’epoca remota Battisti Lucio da Rieti aveva fatto esattamente questo: puro pop elettronico, peraltro destrutturato assai di più, linee melodiche cantate anch’esse a volte a voce piatta, con i testi illogici di Pasquale Panella. Nel mezzo c’è stato tutto un mondo di elettronica, dal tecno-pop anni 80, al trip-hop anni 90, dalla trance al chill-out alle milleHouse Tecno e Hardcore che hanno riempito le piste. Cosmo cita qui e là, con piccoli tocchi, e ci mette del suo, ora le macchine se ben guidate fanno fuochi d’artificio. Il lato heavy-tech-dj non mi ha attratto ma spinto via, però è vero che in un’epoca in cui il suono conta molto più delle parole, l’intenzione di Cosmo di intrecciare insieme testi che hanno un significativo personale, racconti e chiacchiere sparse, e un pop continuamente diverso di suoni e di ritmi ha un suo perché. In fondo, “mammagari” avere un Battisti 2.0.
Alessandro Mannarino, headliner della seconda serata, in otto anni e quattro album più un live è uscito dal giro dei localetti romani ed è diventato una star nazionale, creando una comunità trasversale che lo segue, lo adora, gli crea una sorta di coro continuo sotto ogni canzone (“il bello del mio live è che praticamente è cantato insieme”). Lui sì che è l’emblema di questo Rigenera: nato e cresciuto a San Basilio, periferia est romana (“ma mamma mi diceva sempre di dire ‘fra la Nomentana e la Tiburtina’, che suonava meglio”), ha fatto una gavetta spietata, fatta di derisione nei posti dove suonava e di continuo senso di inadeguatezza con cui veniva bullizzato da professori, ragazzi, persino dal suo idolo Chico Buarque de Hollanda (ma questo in età adulta, per un dribbling interrotto sul campetto de futbol…). Rabbia compressa come lui, piccolo e torello, fino a litigare e rifiutare seduta stante la Laurea in Antropologia perché il titolo della sua tesi (qualcosa tipo l’inutilità della scuola) non era piaciuto (eufemisticamente) alla Commissione. Una storia di lotta di classe, insomma. Di rabbia, quella che dava il titolo al primo album Bar della Rabbia, e che a 39 anni sembra ancora tutta lì.
Il riscatto musicale e sociale di Mannarino è passato attraverso una crescita vistosa: dopo i primi stornelli/ballate come Me So’ Mbriacato intinte nella tradizione romanesca di Petrolini e della grande Gabriella Ferri, e videoclip (Tevere Grand Hotel) girato in un campo Rom, è uscito dal Bar che protegge ma imprigiona. Nelle sue parole, prima è andato in città, con ‘Supersantos’, affidando il ruolo di ribelle a due icone femminili, Mary Lou e Maddalena. Poi si è mosso ancora, per guardare le cose da una certa distanza, ed è andato ‘Al Monte’. A questo punto, il linguaggio ha fatto uno scatto, i testi si sono raffinati, è emersa una poetica dolceamara, fatta di metafore e invenzioni fiabesche, e di osservazioni del quotidiano più argute, più leggere. Con l’ultimo Apriti Cielo, nato in un lungo viaggio in Brasile, la trasformazione è stata completa, un Romanzo Popolare poetico e crudo insieme, carezzevole e tagliente.
Il mondo visto non da un intellettuale ma da una persona comune, in mezzo agli altri, che nei momenti più ispirati scrive pagine alte: L’Impero, Apriti Cielo e L’Arca di Noè, allegorie del mondo, del potere e della vita. La giocosità di Babalù o Serenata Lacrimosa, Negresses Vertes e Mano Negra in jam in un’osteria romana, perfette per ballare e cantare. Un penetrante sguardo sulla realtà affidato a un bambino “perché certe cose son così dure che è meglio farle dire a un bambino”, Vivere La Vita, e quel vero gioiello con cui ha vinto il premio di Amnesty International nel 2015, Scendi Giù: la storia di un carcerato, della sua donna e di quelli che lo hanno giudicato, cantata con tono intimo, ‘da fantasma’, ha una perfetta scrittura da giallo, con la svolta finale che tocca il cuore.
Se lo ascoltate, troverete tracce di un De Gregori non ‘principesco’ ma davvero popolare, un Rino Gaetano cresciuto e sceso a patti col mondo, un Califano da osteria sotto braccio con Stefano Rosso, la tradizione popolare italiana, dai Mau Mau a Sparagna, la scanzonatezza zingaresca di Tonino Carotone, e soprattutto Manu Chao, l’archetipo del cantautore folk-politico/sociale-con-licenza-di divertire. Ma alla fine, va detto, Mannarino ha la sua unicità. Come tutti, è un mix di tutto, è come lo fai che fa la differenza. Ormai alle spalle un tour di cui parla in termini orgogliosi, sedici musicisti sul palco arredato teatralmente e arrangiamenti preziosi, culminati nei 12mila a Rock in Roma, Mannarino è venuto a Palo in formazione ‘solocorde’, tre chitarristi fra cui il fedele Tony Canto, il principale artefice dietro la sua maturazione sonora. Scansione cronologica, album dopo album intervallati da una breve chiaccherata, un parole e musica con momenti divertenti, altri di onestà disarmante, ricordi di nonno Piero che lo andò a trovare, in autobus, perché sentiva che stava per mollare, e forse gli ha salvato la vita. Tutto che stava funzionando alla grande e con intimità notevole per la situazione, fino a che non ci siamo incagliati per la terza volta sul tema della Chiesa, la vergine Maria, il papato e Bergoglio… «No, perché vuoi parlare un minuto di Papa Bergoglio?». «No, grazie, non ci penso nemmeno… Ho capito che con la Chiesa non hai un buon rapporto…ma…(la domanda seguente pressoché inevitabile)… la spiritualità?». Alla risposta «il vino!», ho capito che non era aria.
Però, una frase sulle cose che non gli vanno giù, «Chiesa, Patria, bandiera, politici, scuola», mi ritorna in mente mentre ci stiamo salutando nel backstage. Lo guardo, pieno di riccioli, baffi e occhioni neri sempre spalancati, e si sovrappone un’altra immagine di tanti anni fa, una foto di Edoardo Bennato del 1979, incidentalmente l’anno di nascita di Mannarino. Stessa faccia da scugnizzo (o da fijo de ‘na mignotta) buono, facce che hanno viaggiato e vissuto. Le stesse parole che cantava Edo in ‘Buoni e Cattivi’ risuonano 45 anni dopo in una faccia che assomiglia, sono davvero stupefatto. C’è chi cresce con Chuck Berry e Stones e chi con la Ferri e la patchanka, ma non è questo il punto. Anche Edo era pieno di rabbia, anche lui aveva preso schiaffoni, ma ha saputo metabolizzarla e trasformarla in testi di rara bellezza. La rabbia ti può portare solo fino a un certo punto, poi deve esserci l’alchimia di mutarla in poesia, arte, espressività, quello che sia. I propri demoni bisogna lasciarseli dietro, non c’è spazio in valigia per passato e futuro insieme. Mi auguro che Mannarino, dopo Apriti Cielo (che, sia detto per inciso, potrebbe essere tranquillamente cantata da Bennato) continui a salire. Cosa c’è dietro il cielo? Non può essere solo ‘un telo nero’. Buon viaggio.
Dopo questa session-confessione sono arrivati i Selton, di cui sapevo poco prima, ma affacciandomi ho capito parecchio in meno di 30”. Tre ragazzi brasiliani che si son conosciuti a Barcellona, sono stati chiamati in Italia a fare un disco di cover di Cochi e Renato e Iannacci (!!) e hanno prodotto almeno un singolo di quelli che si appiccicano, Luna In Riviera. Mi aspettavo una sorte di u-gegè u-gegè tropicale, e invece…Belli pompati, pop muscolare ben suonato, benissimo cantato, multilingua, sorrisi e simpatia irresistibile.
Il terzo giorno, altre due variazioni sul tema. Aprono i Ministri, milanesi, un po’ in uniforme un po’ alla come viene, formazione 3+2 (chitarristi d’appoggio), come a basket. Fanno rock, tosto e con testi tutt’altro che banali. “Lo sapete che siete in piena controtendenza, vero?” gli dico ridendo. ‘Ovviamente, ma qualcuno lo deve pur fare’. Il palco però lo san tenere bene, le mosse sono tutte quelle del catalogo, il suono là fra Foo Fighters Green Day e AC/DC, con Federico alla seicorde che sbatte la testa alla Angus Young, un head banging senza sosta che sfida le leggi della fisica e della chiropratica. Stanno insieme da quindici e di dischi ne han fatti sei, anzi “sei e un EP”, puntualizzano.” Vorrei dirti che EP i ragazzi di oggi non sanno neanche che è”. “Un partito?” ”Ecco, appunto”. Questo fa capire quant’è dura la strada senza gli hit e le radio a pomparti per il sano classic rock di prima categoria. Ma va detto che le prime file le parole e i cori li sanno tutti (come del resto di TUTTI, da Motta ai Selton). E allora non ti rimane che goderti le schitarrate e pensare che il prossimo che ti chiama e ti chiede dei gusti dei giovani e cosa ascoltano farai finta di avere da fare.
Chiude i tre giorni Clementino, 36 anni, rapper con già una dozzina d’anni alle spalle di onorata carriera. Uno degli apripista della scena italiana. E’ veramente difficile raccontare Clementino a parole. Un omone vestito con tenuta da rapper estiva, short e magliette o canotte da basket, e l’immancabile cappellino. Casinista, simpatico, sveglio. La periferia, per lui Nola rispetto a Napoli, chiede doti supplementari per uscirne. Nel suo caso, sono state le sfide di free-style, improvvisazione in rima, due rapper uno contro l’altro, con l’evidente tentativo di deridere l’altro il più possibile, e portare dalla propria parte la sua claque. Le ha vinte tutte, tutti i campionati italiani da Tecniche Perfette a Da Bomb, è andato all’estero, chissà che capivano (vabbè che per il napoletano rappato già Roma è Nord). Quando chiedo allo zio-accompagnatore come lo devo presentare, mi guarda con la faccia da chettelodic’affà: «è ‘nu fenomeno»
E lo è. E’ una sorta di gigante buono –perché la sua natura è quella, fan**lo il gansta-rap- continuamente in movimento, battute, aneddoti, citazioni, imitazioni. Il pomeriggio, in un incontro aperto (signore e bambini, rapper locali e carabinieri), e palesemente all’opposto di quello con Mannarino, Clementino ne fa di ogni: prende il cell a un ragazzino e fa sentire da You Tube le sue cose dal vivo insieme a Pino Daniele poco prima che ci lasciasse, prende la chitarra e fa i suoi hit, da O’Vient a Quando Sono Lontano, fa free-style rimbalzando come una palla da flipper fra tutto quello che vede intorno a sé: persone oggetti e –ovviamente, è il rap- se stesso. ‘Nu Fenomeno. Nulla in confronto a quando arriva sul palco e per un’ora abbondante riempie l’aria di slang napoletano e ritmi dub, parlando di strada e gang, ganja amnesia e purple haze, rappando alla grande e facendo free-style, questa volta, su quelli affacciati ai balconi e nelle strade circostanti. Fino a una battaglia di dissing fra i sue due alter-ego, Clementino (col berretto dritto) e Iena White (cappellino girato, olè), due al prezzo di uno.
E infine l’immancabile bagno di folla, prima in piedi a luci basse con tutti i cellulari a illuminare come candele led, e poi un crowdsurfing anche un po’ azzardato, vista la mole. Si fa un giro dopo aver dato istruzioni di dove portarlo, e nonostante la faccia non esattamente rilassata non perde un colpo, rap never stops. Grande chiusura della tregiorni devo dire: delle cento variazioni di rap sul pianeta, quella filo-jamaicana è la più organica, il napoletano vale quanto il patois jamaicano, e Clementino è di quelli che «fa stare bene». Yo!
In genere è difficile trovare un senso che non sia musicale ai Festival, ma in questo caso un filo comune c’è. Il senso civico di riscatto, di crescita di cultura e consapevolezza, come strumento e come terapia. Perché mischiare è bene, condividere è meglio, rigenerarsi insieme è il massimo.
La Stampa