Ha vinto le elezioni presidenziali del 2015 con una percentuale confortante per lui – il 97,7% – e a dir poco inquietante per chiunque abbia a cuore la democrazia. Ha fatto erigere statue che lo esaltano a ogni piè sospinto (le ultime due solo nei giorni scorsi) in Kazakistan, il Paese che ha guidato per trent’anni esatti con il pugno di ferro tipico dei dittatori più spietati. Eppure adesso l’ex presidente-padrone Nursultan Nazarbayev, 81 anni, conquista i riflettori di un film documentario lungo 8 ore firmato Oliver Stone.
Il lavoro, intitolato Qazaq: History of the Golden Man (Storia dell’uomo d’oro) è stato introdotto da un tweet in cui il regista definisce l’ex leader kazako «a modest man», una persona semplice, insomma, persino moderata nell’accezione inglese del termine. Davvero troppo anche per il regista americano con un passato da militare, che nonostante i due Oscar per Platoon e Nato il quattro luglio finisce ora sotto attacco per la sospetta compiacenza con gli uomini forti del pianeta.
«Chiamate #Nazarbayev come volete: dittatore, uomo forte, tiranno, fondatore – ha scritto Stone sul suo account Twitter – Lo troverete un uomo semplice, che spiega la fine dell’impero #sovietico e la transizione del suo importante paese verso una nazione indipendente, che include l’eliminazione delle sue armi nucleari». Peccato che per realizzare il suo lavoro il cineasta statunitense non abbia avvertito la spinta di sentire qualche oppositore. Il film «è ovviamente parte dell’incessante culto della personalità di Nazarbayev», ha affermato al quotidiano britannico Guardian Joanna Lillis, giornalista che vive e racconta il Kazakistan da anni e ha scritto un libro sui lati oscuri del Paese. Lillis è convinta che il lavoro di Stone alla fine contribuirà alla propaganda del leader, un modo «per lucidare la sua reputazione e la sua eredità» anche agli occhi degli spettatori stranieri a cui l’opera è rivolta. Dello stesso parere anche Vyacheslav Abramov, fondatore del sito di informazione indipendente Vlast.kz, che sempre al Guardian ha spiegato: «Ovviamente Stone non voleva fare un film onesto sul Kazakistan. Non era il suo obiettivo. È un propagandista comune, e penso, vergognoso. Almeno, questo è ciò in cui si è trasformato».
Incalzato sull’argomento dalla testata britannica, Stone ha replicato secco direttamente dal Kazakistan: «Non ho intenzione di dare lezioni a queste persone su come gestire il loro paese e come gestire una democrazia». Poi l’elogio del leader kazako: «Dategli credito per aver costruito il paese, aver mantenuto la pace e non averlo trasformato in un mucchio di spazzatura come l’Ucraina». Infine la battuta al vetriolo sul proprio Paese: «La democrazia funziona a stento negli Stati Uniti». Ma i commenti del regista sulla Rivoluzione ucraina del 2014 – «un complotto della Cia» – la difesa dell’ex presidente Viktor Yanukovych, lo spazio dedicato alla versione filorussa dei fatti, e la condiscendenza con cui ha dato credito in diverse interviste, all’interno dei suoi lavori, al presidente russo Vladimir Putin e allo stesso Yanukovych comincia a spaventare chi si batte contro le dittature nei propri Paesi e vede nel regista americano un importante strumento della peggiore propaganda di molti pericolosi dittatori internazionali. Da Fidel Castro, a cui ha dedicato tre documentari, ai sette presidenti dell’America Latina, inclusi il boliviano Evo Morales e il venezuelano Hugo Chavez, Stone comincia a insospettire per la scelta di lasciare tanto margine agli uomini forti di certi Paesi, senza darne abbastanza a chi subisce la negazione delle proprie libertà. Lui se ne infischia e tira dritto per la sua strada: «Che c’è di sbagliato nel celebrare i trent’anni in carica di Nazarbayev?».
Gaia Cesare, ilgiornale.it